
[Estratto da Marco Maurizi, Attualità dell’utopia. Per una ricostruzione della Teoria Critica in Marcuse, in “Spazi di filosofia“, settembre 2021]
Che sia possibile un cambiamento qualitativo dal lato della produzione è dovuto ad un fatto molto semplice. C’è un’opposizione qualitativa alla base del modo di produzione vigente: quella tra Capitale e Lavoro. La distinzione tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono i mezzi di produzione, tra chi lavora e chi comanda il lavoro altrui non è quantitativa, non è questione di “grado”[1]. Certo, è una differenza che opera e si traduce in termini quantitativi ma che resta irriducibile e, anzi, può operare quantitativamente proprio perché il suo nucleo si sottrae alla quantificazione: il capitale comanda il lavoro, il lavoro non comanda il capitale.
Tale opposizione opera quantitativamente poiché la differenza di potere sociale che promana da quei due poli è definibile in termini quantitativi: non solo la differenza di ricchezza esprime livelli di potenzialità sociali diversi ma tutte le caratteristiche di questa società sono dominate dalla quantità (l’uguaglianza “formale” tra salario e lavoro, la riduzione del lavoro alla sua forma astratta/omogenea, il denaro come equivalente universale, il processo di autovalorizzazione del capitale, l’efficientizzazione dei processi produttivi, la standardizzazione delle merci ecc.). L’intero edificio, tuttavia, poggia su una base che non viene intaccata da quelle operazioni, né può essere rimossa per via di trasformazioni quantitative. Quell’opposizione si traduce così in un sistema quantificante in cui i bisogni vengono modificati grazie all’influsso della scienza e della tecnica sia nella sfera della produzione che in quella del consumo. In questo modo, appunto, le qualità di cui è fatta la vita cambiano – salti locali della quantità in qualità – ma solo se l’opposizione qualitativa da cui si originano resta immobile. In altri termini, la vita, ovvero ciò che la governa al fondo, non cambia.
Il problema della “qualità della vita” va infatti posto distinguendo il tempo di lavoro e il tempo libero. In entrambe le sfere della vita c’è consumo di merci ma in relazione inversa. Nel tempo di lavoro siamo merci consumate dal capitalista, nella sfera del consumo siamo consumatori di merci. Ora, il cambiamento qualitativo dal lato del consumo non può avvenire se non attraverso l’antagonismo nella sfera produttiva dove avviene il consumo di forza lavoro da parte del capitale. Qui l’opposizione dei lavoratori al proprio sfruttamento non va semplicemente in direzione del rendere “migliore” la qualità della merce-lavoro per il capitalista (ciò che nei termini di questo consumo significherebbe piuttosto una sua maggiore disponibilità e malleabilità), bensì nell’opporre la non consumabilità di questa merce, pretendendo una riappropriazione del tempo di vita[2], fino all’abolizione del carattere di merce del lavoro tout court. È solo rendendo qualitativamente peggiore questa merce per il consumo capitalista che può realizzarsi un miglioramento qualitativo nella soddisfazione generale dei bisogni, sottraendo perciò anche le altre merci all’effetto distorsivo del profitto. Anche in questo caso, dunque, è fondamentale l’abolizione del carattere di merce dei beni consumati, cosa che non può avvenire direttamente nella sfera del consumo, attraverso il volontariato o la creazione di un mercato “alternativo” ad es., perché ciò non intaccherebbe lo scambio di merci generalizzato, rimarrebbe al di qua della dinamica di universalizzazione operata dal capitale, resterebbe cioè consumo privato, qualitativamente orientato, sì, ma indifferente allo sviluppo del modo di produzione capitalistico (oppure, ne verrebbe riassorbito come forma di mercato “alternativo”, come beni di “lusso”, vedi oggi il fenomeno del green washing ecc.).
L’accumulazione quantitativa è così alla radice di tutti i malesseri sociali che vengono percepiti qualitativamente dall’esperienza soggettiva ma che, proprio per ciò, sono così difficili da determinare oggettivamente. Pensiamo allo “spreco” o alla “distruzione delle risorse”. È chiaro infatti che per definire lo “spreco” c’è bisogno di un criterio che non sia a sua volta quantitativo o, che è lo stesso, sia definito a partire da criteri, anche quantitativi, ma antagonisti rispetto a quelli che determinano l’optimum della produzione vigente: ovvero ciò che garantisce il processo di accumulazione capitalistico[3].
Ma la questione ha un ulteriore aspetto paradossale. Perché l’origine del Capitale, in realtà, è geneticamente e sistematicamente, il Lavoro: il Capitale è lavoro accumulato, morto che succhia lavoro-vivo. Dunque, nell’opposizione tra Capitale e Lavoro, il Lavoro è la realtà, l’elemento ontologicamente prioritario, è cioè un’attività che si contrappone a sé stessa, ora come merce, ora come denaro, come capitale[4]. Ed è così riconducendo le diverse qualità delle merci e della soddisfazione dei bisogni alla radice comune nell’attività lavorativa che è possibile evidenziare la necessità di una ridefinizione di tutti questi bisogni a partire dalla sfera della produzione, togliendo l’opposizione qualitativa tra Capitale e Lavoro, un’opposizione fenomenica (cioè di un’apparenza che produce effetti reali) che distorce il funzionamento della società nel suo complesso. Considerare la libertà dal punto di vista dell’organizzazione della produzione, dunque del Lavoro come attività primaria, significa non solo rimuovere l’alterità illusoria del Capitale per permettere una reale auto-organizzazione del Lavoro, ma anche collocarsi nel punto di origine di tutte quelle opposizioni su cui si erge e si stabilizza la società del presente: non solo quella tra produzione e bisogni, ma la stessa opposizione tra quantità e qualità.
L’opposizione centrale tra Capitale e Lavoro può e deve essere articolata, ovviamente, in quelle tra denaro e forza-lavoro, tra profitti e salari, tra capitalisti e salariati a livello della loro incidenza nella popolazione mondiale. La configurazione dialettica dell’opposizione centrale si mostra qui in modo esemplare. Le opposizioni derivate profitti/salari e capitalisti/salariati, ad es., sono inversamente proporzionali, misurando la prima il dominio, la potenza sociale del capitale che si accompagna ai fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale stesso e, la seconda, il grado di “proletarizzazione”. Ora, nella nostra opposizione fondamentale la distinzione collettiana tra contraddizione e opposizione reale, Widerspurch e Realrepugnanz[5], cessa di essere rilevante. Il lavoro è una forza reale, materiale che, in questo processo di sussunzione da parte del capitale, viene contrapposta a sé stessa. La struttura della quantificazione che sorge da tale opposizione ha come telos (fine unico reale, come causa teleologica, benché non unico effetto) il processo di profitto e accumulazione (D-D’). Le decisioni politiche che regolano questo conflitto riguardano l’organizzazione del lavoro nella sfera della produzione, la sua direzione, intensità e finalità: questi elementi hanno la propria misura interna, sistemica, in quella struttura quantificante. Ciò è talmente vero che gli effetti delle politiche del lavoro sono quantitativamente calcolabili: andare, per es., in direzione di una riduzione dei salari o dei profitti produce un conseguente spostamento del potere di dominazione sociale del capitale. “Il cambiamento quantitativo può significare e può portare alla rivoluzione”[6], scrive giustamente Marcuse, ma solo se ha di mira l’abolizione dell’opposizione qualitativa fondamentale. Qualora infatti un governo tentasse una soluzione rivoluzionaria di quel conflitto e dunque la cancellazione del potere del capitale ciò potrebbe avvenire solo attraverso la catastrofe di quella struttura di quantificazione.
Proprio questa catastrofe, dunque, non può avvenire quantitativamente all’interno del sistema capitalistico, attraverso la piena automazione che viene costantemente impedita dalla stessa dinamica interna del Capitale che la favorisce[7], né avviene automaticamente con l’esproprio dei mezzi di produzione. E che non sia così lo dice lo stesso Marx quando teorizza il famoso passaggio dal socialismo al comunismo come superamento definitivo del principio di scambio sopravvissuto alla fine della “vecchia società”[8]. Come vedremo, infatti, tutta la problematica del “salto qualitativo” dal socialismo al comunismo è assolutamente speculare alla teoria marcusiana del “gran rifiuto” come tentativo di spezzare il totalitarismo della società capitalistica avanzata.
[1] Come vedremo, l’affermazione di Marcuse sul fatto che la classe operaia dei paesi industrializzati, perdendo la sua “negatività” rispetto al sistema, la sua “differenza qualitativa” dalle altre classi, “non è in grado di creare una società qualitativamente differente” (H. Marcuse, “Socialism in the Developed Countries”, in H. Marcuse, Marxism, Revolution and Utopia. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 6, Routledge, New York – Londra 2014, pp. 178-179) non significa mai il superamento ma solo la sospensione della contraddizione centrale tra Capitale e Lavoro. Cfr. le puntualizzazioni di P. Mattick, “The Limits of Integration”, in K. H. Wolff – B. Moore (a cura di), The Critical Spirit: Essays in Honor of Herbert Marcuse, Beacon Press, Boston 1968, p. 398.
[2] “For capitalism is based on an inherent antagonism and struggle between diametrically opposed material forces. The class struggle is this selfsame process; indeed, it is the disruption and nonreproduction of capitalist social relations, their refusal and potential rupture, in which the future becomes truly unwritten, and a glimpse of a mode of life qualitatively beyond the form it presently takes as it is not lived”. Ch. Garland, “Negating That Which Negates Us. Marcuse, Critical Theory, and the New Politics of Refusal”, in Herbert Marcuse and Contemporary Social Movements, cit.,p. 61.
[3] Lo stesso potrebbe dirsi delle questioni ambientali: il grido di allarme che da cinquant’anni a questa parte si leva contro l’inquinamento era assolutamente vero allora come oggi. Ma il “punto di non ritorno” viene spostato sempre in avanti poiché fondamentalmente anche il suo grado di “tollerabilità” si misura nell’antagonismo che gli si oppone socialmente.
[4] È chiaro che questa torsione su sé stesso del lavoro è a sua volta effetto del capitale, ovvero di una specifica configurazione storica delle forze e dei rapporti di produzione. Non è il lavoro “in generale” a produrre il capitale, semmai è il capitale e a porre in essere il lavoro salariato generalizzato. La nozione di capitale come “presupposto posto” deve rendere conto anche di questo paradosso in cui l’analisi genetico-storica e quella sistemica-teorica del capitale si intrecciano originariamente. Come vedremo più in là, quando Marx sembra riprendere quasi con le stesse parole l’analisi “antropologica” del lavoro dei Manoscritti nella prima parte del Capitale questa è tuttavia superata (aufgehogen?) nell’analisi del lavoro astratto e della sua relazione con l’accumulazione capitalistica.
[5] Soprattutto perché non c’è alcuna “unità originaria” che va scindendosi in due. Cfr. L. Colletti, “Marxismo e dialettica”, in Id., Intervista politico-filosofica, Laterza, Bari 1075, p. 111.
[6] H. Marcuse, “Liberation from Affluent Society”, in Id., The New Left and the 60s. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 3, Routledge, New York – Londra 2005, p. 79.
[7] H. Marcuse, “Socialism in the Developed Countries”, cit., pp. 173-174n
[8] K. Marx, Critica del programma di Gotha, Feltrinelli, Milano 1968, p. 16.