Ma Auschwitz non era un macello

di Marco Maurizi

pubblicato originariamente in Animal Studies – Rivista italiana di antispecismo, n. 5 (2013)

Compagni che sbagliano

Il paragone tra la Shoah e lo sterminio degli animali non umani è un’arma a doppio taglio e viene troppo spesso maneggiata con leggerezza. Esso assolve due compiti diversi: da un lato dovrebbe servire a scioccare l’opinione pubblica e farla riflettere sull’orrore che ogni giorno la società industriale avanzata compie nei confronti della natura non-umana; dall’altro dovrebbe mostrare una somiglianza strutturale che permetta di comprendere i due fenomeni (lo sterminio degli ebrei e degli animali) come in qualche modo analoghi. Da un lato, dunque, dovrebbe “svegliare” le coscienze, colpendole con l’effetto choc di un paragone che turba l’animo; dall’altro, dovrebbe “informarle”, attivare un processo conoscitivo che mostra dietro l’apparente diversità una comune essenza. Non è affatto detto che queste due cose possano andare di pari passo. Penso anzi che siano in contraddizione tra loro, per motivi formali e sostanziali.

1) Formali: perché la “comprensione” non può coincidere con il subire passivamente uno choc emotivo-visivo. La comprensione è infatti un atto che, al limite, può seguire uno choc cognitivo ma non può identificarsi con esso. Ammesso che la Shoah e i macelli industriali abbiano una comune natura, quest’ultima potrebbe anche essere illuminata da un’immagine o da una frase choc («nei confronti degli animali tutti gli umani sono nazisti»), ma poi dovrebbe comunque essere chiarita concettualmente attraverso un processo di pensiero che mostri la sostanziale fondatezza di quel paragone.

2) E qui giungiamo ai motivi sostanziali per cui il paragone è inesatto: se davvero Auschwitz e i macelli fossero la stessa cosa, come spesso si sostiene, o, in forma più blanda, avessero la stessa natura, allora il primo termine del paragone dovrebbe servire a spiegare il secondo e viceversa. Il paragone viene invece sempre evocato in modo unidirezionale: è Auschwitz che viene usato per spiegare i macelli e mai il contrario. Perché? Se si trattasse veramente di uno stesso fenomeno che si manifesta in due aspetti diversi (semplicemente “sostituendo” le vittime umane con le non-umane) dovremmo dire che “Auschwitz è stato un macello” e i nazisti dei “macellai” (ovviamente in senso non metaforico). Perché di fronte a queste affermazioni restiamo interdetti e ci sembra che qualcosa non torni?

Il saggio di Susann Witt-Stahl “Auschwitz non sta sul vostro piatto” spiega molto bene perché e nella seconda parte di questo articolo cercherò di sviluppare gli spunti lì contenuti. Ma prima è necessario affrontare le critiche che questo importante saggio ha suscitato in particolar modo da parte del collettivo Rinascita animalista.

La polemica di Rinascita animalista si incentra prevalentemente sul fatto che la Witt-Stahl abbia criticato la campagna pubblicitaria della PeTA piuttosto che il libro di Patterson Eterna Treblinka. Ma resta tutto da dimostrare che quest’ultimo offra qualcosa di più profondo della campagna PeTA, che riesca, insomma, veramente a dimostrare la continuità storica e logica tra l’olocausto e lo sterminio degli animali.

In generale mi sembra che il problema di questa risposta è che la critica al testo di Susann Witt-Stahl – se a tratti può apparire giustificata – non salvi affatto Patterson, perché sul nesso causale e sostanziale tra macellazione industriale e Auschwitz non c’è alcuna chiarezza. Al di là delle immagini orrorifiche – in cui, come dice giustamente la Witt-Stahl, la “visione” sostituisce la “comprensione” – rimangono sempre e soltanto certi labili e avventurosi paralleli, come il fatto che uno abbia lavorato in un macello animale prima di mettersi a “macellare” gli ebrei o che la logica da “catena di montaggio” sia stata inventata prima per i mattatoi e poi applicata al resto, dalla fabbrica fordista a Treblinka. Io credo che occorra fare piazza pulita del quadro “giornalistico” piuttosto che “storico” tracciato da Patterson (che serve solo a fare sensazione stimolando l’emotività) e ricostruire il paragone – se davvero lo si vuol fare – sulla base di assunti filosofici e storici fondati, che facciano appello alla comprensione razionale.

La specificità dell’olocausto non sta  solo nell’aspetto formale, burocratico-amministrativo della morte, ma nel concetto stesso di sterminio, di annullamento dell’altro. Si dirà, “ma questo è quello che facciamo con gli animali nei macelli!” Nemmeno per sogno. Come nota giustamente Antonio Volpe, che pure sostiene la legittimità del Paragone, «nessun nazista si è mai sognato di far riprodurre ebrei all’infinito per poterli, all’infinito, sterminare». La differenza di struttura è lampante, è addirittura assurdo doverlo ribadire. Come si vede, il problema è che nell’Olocausto l’alterità (vera o presunta) della vittima, quella della “razza ebraica”, deve essere eliminata per far sì che l’identità (vera o presunta) del carnefice, l’ “ariano”, possa esistere ed affermarsi. Equiparare i due fenomeni sulla base della modalità industriale di amministrazione della morte è del tutto superficiale e si fa sfuggire l’essenziale. La Shoah non è riducibile in modo formale ed esteriore all’omicidio industrializzato di massa, ha anche un contenuto ben determinato. È su questo contenuto, sul rapporto non casuale tra questo contenuto e la forma della meccanizzazione assassina, che si concentrano Adorno e Horkheimer (correttamente citati a questo proposito da Susann Witt-Stahl). Non credo che l’ideologia nazista sia così poco rilevante per spiegare l’Olocausto come pretende Rinascita Animalista, soprattutto perché non credo che l’ideologia nazista sia un monstrum nel cammino della modernità.

È proprio il suo aspetto paradossale di ideologia reazionaria iscritta nella logica del progresso ad essere rilevante, a costituire l’arcano, l’enigma che occorre risolvere (e che il Paragone lungi dal risolvere confonde ancora di più: il nazismo diventa solo un modo un po’ più aggressivo e violento della “normale condotta umana”: così si esprime Patterson). Ciò che è davvero eclatante e irriducibile nella barbarie nazista e nel suo esito criminale è, come è stato fatto spesso notare, che esso sia accaduto nel cuore dell’Europa, da parte di uno dei popoli più civilizzati, in una terra di “poeti e scienziati”. Non basta il discorso sulla “freddezza” e sulla “banalità del male” a spiegare questo… Se si tralascia il contenuto di Auschwitz allora è ovvio che si possono fare paragoni con tutto: con il genocidio dei nativi americani, con i Gulag, Hiroshima etc. E allora ovviamente anche con i macelli.

L’altro aspetto rilevante, che sorprende veder sottovalutare da una voce marxista come quella di Rinascita Animalista, è che i macelli, come scrive giustamente la Witt-Stahl, servono ad estrarre plusvalore non a sterminare gli animali: anche in questo caso la differenza è assolutamente evidente e sta nelle cose stesse, non si può ignorare limitandosi ad analogie che restano di “superficie”. Abbiamo già visto che non basta dire che Auschwitz e i macelli sono meccanismi di annullamento dell’altro, perché il particolare rapporto tra l’identità del carnefice e l’alterità della vittima nel caso dell’Olocausto impone di non abbandonarsi a facili equiparazioni. Ciò detto, dissento profondamente anche da una teoria antispecista metafisica (cioè astorica) come quella proposta da Rinascita Animalista alla fine della risposta: fa una bella differenza annullare l’altro per mangiarselo, per sacrificarlo a Kali o per spazzarlo via dalla Storia! Quando Rinascita Animalista sostiene che per l’antispecismo «le relazioni di dominio tra animale umano e animale non umano sono equiparate a quelle tra animale umano e animale umano», sta nascondendo tutte le molteplici differenze che nelle varie società storiche hanno caratterizzato quelle relazioni. Tutto si riduce all’Uomo e all’Animale, astrazioni prive di qualsiasi presa sulla realtà storica[1].

Un’altra obiezione che mi sentirei di fare è la seguente: è vero che viviamo in un mondo dominato dalla fredda e omicida logica calcolante che ha reso possibile Auschwitz, Hiroshima etc. e che trionfa anche nei macelli industriali. Però rimane comunque errato voler isolare l’Olocausto come parte per il tutto di questo modus essendi cinico e barbaro che domina sul pianeta dal secolo scorso. Di questa fredda e cinica capacità distruttiva fa parte buona parte del mondo tecnologico che ci circonda (dal DDT alle bombe usate in Iraq) e quando il collettivo di Rinascita “allarga” il discorso per far vedere come questa logica distruttiva non sia un epifenomeno ma qualcosa di sostanziale nella storia della civiltà e in particolare del capitalismo, allora risulta evidente quale sia la contraddizione in cui si incaglia: più si cerca di mostrare che tale violenza è un tratto diffuso e caratteristico dell’umanità, meno l’Olocausto appare nella sua singolarità mostruosa, più appare ingiustificato il tentativo di stabilire un paragone “sostanziale” tra Auschwitz e i macelli. Alla fine di tutto il discorso rimane davvero solo un altro esempio del metodo-PeTA: usare l’orrore per scandalizzare, giustificato solo da un desiderio sensazionalistico e, dunque, pubblicitario. Infatti il collettivo parla di usare il Paragone come “arma”, quindi siamo di nuovo di fronte a una strumentalizzazione! Dove sta la differenza con la PeTA?

L’«olocausto animale» appare come una deformazione linguistica, un paradosso dell’immaginario: non solo e non tanto perché “profana” l’orrore indicibile di Auschwitz ma perché lo svuota di significato e lo riduce a pura immagine. In questo modo non aiuta nemmeno a comprendere l’orrore indicibile del mattatoio industriale. Si vorrebbe infatti “usare” l’immagine della Shoah per far comprendere la miseria del macello ma la Shoah stessa rimane un fatto incompreso, un album di foto mute, strappato dal suo contesto, dalle sue premesse logiche e storiche, così come dalle sue conseguenze politiche. E così il Paragone lungi dal chiarire i due termini messi in rapporto, li lascia galleggiare nel vuoto di una generica denuncia della “cattiveria” dell’umanità. È come un ponte sospeso tra due nulla.

Patterson ha contribuito a diffondere questo paradosso e a sottrarlo ad un’analisi seria dei rapporti di dominio. Finché ci si baserà su analogie formali e non sostanziali, finché ci si limiterà a diffondere immagini e non concetti, finché si lascerà sfogo al desiderio di scioccare invece che comprendere, non si riuscirà ad elaborare una vera teoria politica della liberazione animale. La chiusura della risposta del Collettivo è, da questo punto di vista, esemplare nella sua perentorietà. Gli amici di Rinascita Animalista denunciano la PeTA perché da un lato difende il Paragone Auschwitz-Macello e dall’altro accetta di trattare una migliore condizione per gli animali negli allevamenti. Ma come è possibile trattare con aguzzini hitleriani se li si ritiene davvero tali? Questa osservazione critica, già mossa dalla Witt-Stahl per mostrare l’assurdità del Paragone e le conseguenze paradossali cui esso porta se dovesse essere preso “alla lettera”, viene invece accolta con approvazione dal Collettivo. E così, con una perentoria richiesta etica che scava un solco profondo tra gli umani e gli animali, gli amici di Rinascita Animalista sono disposti a portare alle estreme conseguenze il Paragone e a gridare: non si “tratta” con i nazisti! Ma in questo caso dovremmo pensare che il mondo intero sia nazista (a parte, ovviamente, l’esigua minoranza che si è “armata” di quel Paragone). Non ne consegue forse che in tal modo il senso dell’espressione “nazista” perde ogni significato? Diventa il marchio infamante con cui tutta l’umanità, indistintamente, dal bambino che chiede l’elemosina fino al ricco magnate d’industria, viene marchiato a fuoco per puri fini propagandistici. Se c’è un atteggiamento nazistoide, temo, è proprio questo, l’atteggiamento di chi annulla ogni differenza dell’altro e lo riduce ad uno schema di comodo. Nel Paragone tra Auschwitz e i mattatoi si ripete dunque ciò che i carnefici nazisti fecero alle vittime nel pensiero prima ancora che nella prassi: l’umanità intera è ridotta ad esemplare di una generica miseria etica.

È un’esagerazione? Bene, spetta ai nostri avversari dimostrare che questa è “solo” una metafora e non invece un’analogia fondata. Come precauzione, infatti, il Collettivo cerca di smarcarsi dall’accusa di voler identificare l’Olocausto e i macelli, sostenendo che si tratta “solo” di un’analogia: «un ‘Paragone’ è un’analogia, non un omomorfismo in senso stretto» scrivono. Sarebbe interessante avere un chiarimento sulle differenze tra metafora, paragone, analogia e omomorfismo. Perché se si vuole costruire una teoria e un’azione politica conseguente sulla base della parola d’ordine “olocausto” animale, occorre anche sapere dove finisce la fantasia letteraria e inizia la realtà.

Rileggendo Modernità e Olocausto

In questa seconda parte del mio intervento vorrei provare a mostrare alcuni aspetti che potrebbero legare in modo sensato la questione animale e la questione dell’Olocausto. Ciò significa collocare tali fenomeni dentro una cornice storica e teorica più ampia che ne mostri la continuità ma anche la specificità (evitando quindi gli estremi opposti: da un lato, pretendere di identificarli o addirittura “derivare” l’Olocausto dal macello industriale; dall’altro, sancirne la reciproca indifferenza). Solo così, mi pare, si può evitare il pericolo di un appiattimento dei due fenomeni causato da un uso “pubblicitario” e scandalistico del Paragone e la conseguente spoliticizzazione dell’Olocausto denunciata da Susan Witt-Stahl[2].

L’Olocausto e la storia della Civiltà

Per fare questo mi servirò di un testo che costituisce un classico della ricostruzione di ciò che ha reso possibile la Shoah: Modernità e olocausto del sociologo Zygmunt Bauman (Il Mulino, Bologna 2010). Questo testo mette in rapporto Auschwitz e la storia della civiltà, mostrando come non sia possibile derubricare la barbarie nazista a semplice “incidente di percorso” del progresso culturale, tecnico e materiale dell’Occidente. Al tempo stesso, l’Olocausto possiede una propria specificità che non permette nemmeno di equipararlo ad altri fenomeni, pur virulenti, di questa storia.

Il libro di Bauman è importante non solo perché propone una teoria in grado di spiegare la singolarità dell’Olocausto ma anche perché la sua capacità di spiegazione si arresta proprio là dove si intravede il ruolo svolto dall’oppressione animale nei processi che hanno condotto ad Auschwitz. Bauman, in altri termini, mette talvolta in luce la continuità tra oppressione umana ed oppressione animale ma non sembra in grado di trarre le debite conclusioni. Se Bauman avesse posto attenzione a questo nesso e denunciato, assieme al dominio sull’uomo anche il dominio sulla natura, il suo testo sarebbe stato senz’altro teoreticamente più completo. D’altronde, se lo avesse fatto, avrebbe riscritto la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer[3].

La Shoah non è spiegabile in termini di antisemitismo

Per comprendere come sia stato possibile l’Olocausto, Bauman sottolinea che occorre trovare una spiegazione che vada al di là del semplice antisemitismo: infatti, in periodi in cui l’antisemitismo era diffuso a livello popolare (il medioevo cristiano) non si è visto nulla di simile alla Shoah e, d’altro canto, lo sterminio nazista non si è realizzato con il diretto appoggio dell’odio popolare (anzi, tutti i tentativi di fomentare fenomeni di massa in stile pogrom – dai boicottaggi dei negozi ebraici alla Kristallnacht ­– si sono rivelati fallimentari per ammissione degli stessi gerarchi nazisti). Il genocidio degli ebrei non può essere spiegato in termini di semplice avversione emotiva – come una forma tra le tante di eterofobia – perché la sua caratteristica principale è stata l’amministrazione razionale con cui i nazisti hanno tentato di realizzarlo. Cosa ha fatto sì che si realizzasse questo connubio atroce tra disprezzo per l’ebreo e pianificazione del suo sterminio?

Per rispondere a  questa domanda, osserva Bauman, bisogna collocare l’Olocausto non ai margini dalla storia della civiltà (come un suo “errore”, una sua “caduta”) ma dentro, come una sua possibilità latente. Auschwitz è una possibilità iscritta nella struttura stessa della civiltà che si è manifestata solo quando la convergenza di determinate variabili l’ha resa possibile. Così, è vero, come dice Patterson, che i nazisti erano “normali” (nel senso che, tranne alcuni casi, la maggior parte di loro non era tecnicamente “folle”) così come «ogni ‘ingrediente’ dell’Olocausto […] era normale» (p. 26). Per citare Stillman e Pfaff: «Buchenwald appartiene all’Occidente tanto quanto Detroit» (ibid.). Ciò che rese unico l’Olocausto fu la combinazione di tali fattori “normali” in un preciso momento della storia.

Gli elementi della civiltà che hanno reso possibile la Shoah

Semplificando in modo un po’ grossolano si può dire che secondo Bauman la civiltà è caratterizzata da due tendenze fondamentali: la riduzione della violenza diretta e la crescente importanza data alla razionalità nell’agire sociale. Ad esse andrebbe aggiunto il controllo tecnico della natura che in Bauman, come vedremo, è un elemento di questa costellazione che rimane nell’ombra seppure a tratti emerga dal suo stesso discorso.

a. La riduzione della violenza diretta

Cosa significa «riduzione della violenza diretta»? Significa che la civiltà coincide con la riduzione dei rapporti diretti tra i membri della società e la progressiva mediazione di tali rapporti in forme sociali sempre più complesse. Questa istituzionalizzazione del rapporto fisico, potenzialmente violento, non coincide con una limitazione della violenza, bensì con la sua centralizzazione, ovvero concentrazione nelle mani dell’amministrazione. I singoli soggetti vengono progressivamente spogliati della propria capacità offensiva reciproca per essere messi in un rapporto mediato dalla capacità regolativa dello Stato e di altre istituzioni sociali. Da ciò consegue la distanza e la relativa freddezza morale che caratterizza le società altamente complesse: le azioni dei singoli sono infatti mediate dalla totalità sociale e gli effetti dell’agire individuale non hanno più una diretta ripercussione sull’altro. Se in tal modo la distanza che spesso separa l’azione dai suoi effetti ultimi (una distanza fisica, corporea, temporale ma anche psicologica ed emotiva) de-responsabilizza l’agente morale tale de-responsabilizzazione ha un suo fondamento oggettivo.

b. La diffusione della razionalità strumentale

Tutto ciò si associa alla crescente importanza che la “razionalità strumentale” (cioè la capacità tecnica di agire in conformità ad uno scopo seguendo la via più breve ed efficace) assume nella società moderna. La modernità si costituisce come un progetto di società “giardino”, cioè uno spazio in cui si ordinano e organizzano i fenomeni “positivi” e si modificano o estirpano i fenomeni “negativi”. Mentre la società tradizionale, pre-illuministica, è caratterizzata dall’arbitrio dei rapporti tra uomini e tra umani e natura, la società moderna, illuministica, si sforza di raggiungere un’organizzazione di tali rapporti quanto più “perfetta” possibile, disincentivando o eliminando ogni “intoppo”, ogni attrito al perfetto funzionamento della macchina sociale. Nella modernità, “razionale” è tutto ciò che incoraggia questo funzionamento, “irrazionale” ciò che lo intralcia.

L’illuminismo come punto di svolta

Al crocevia di questi processi vediamo cosa accade dentro e fuori la società, ovvero cosa accade agli esseri umani e alla natura. I primi vengono progressivamente spogliati di tutte le caratteristiche accidentali (di razza, genere, nascita, confessione ecc.) che la storia ha cucito loro addosso e ridotti all’essenza di cittadini, atomi umani formalmente uguali e giuridicamente indistinguibili l’uno all’altro. La natura, presa nelle maglie della scienza meccanicistica, diventa a sua volta un oggetto (o un sistema di oggetti) quantificabile e sottomessa così alle leggi del calcolo e della tecnica umani. In tal modo essa viene però incoronata come «una nuova divinità» e la scienza legittimata come «suo unico culto ortodosso» di cui gli «scienziati» divengono «profeti e sacerdoti» (p. 104). Bauman non indaga oltre questa perversa dialettica per cui ciò che è asservito e squalificato dalla società umana diventa anche il principio che domina questa società ed è precisamente questa dinamica che Adorno e Horkheimer hanno indagato nella Dialettica dell’illuminismo.

Ad ogni modo, è questo intreccio di elementi che renderà possibile l’Olocausto e gli conferirà la sua specificità. In che modo?

L’ebreo inconciliabile: vittima designata del progresso.

Anzitutto la selezione della vittima è legata al ruolo che gli ebrei hanno avuto nel processo di modernizzazione dell’Occidente. L’ebreo rappresenta infatti una figura ambigua che difficilmente riesce ad inserirsi sia nell’ordine premoderno che in quello moderno. Nell’ordine medioevale cristiano egli si trovava al di fuori del gruppo sociale ed era visto quasi come un subumano, «il prototipo e il modello principe di ogni anticonformismo, eterodossia, anomalia, aberrazione…dimostrazione dell’irrazionalità minacciosa e inusitata della devianza…Il concetto di ‘ebreo’ recava in sé il messaggio: l’alternativa all’ordine esistente qui ed ora non è un altro ordine, ma il caos e la devastazione» (p. 65). Nell’ordine moderno, al contrario, l’ebreo incarna invece l’essenza dell’universalismo perché in quanto “sradicato” si inserisce perfettamente nei processi di superamento del particolarismo e del localismo e viene così considerato nuovamente un fattore socialmente disgregante (p. 82). A ciò si aggiunga che, proprio per la sua figura extraterritoriale rispetto all’ordine sociale tradizionale, l’ebreo era “protetto” dal principe o dal nobile e spesso usato da questi per la riscossione dei tributi attirandosi l’odio delle classi popolari, mentre nel tentativo di farsi assimilare come cittadino dello stato borghese viene identificato come nemico del potere feudale. L’ebreo finisce così per convogliare sulla propria figura l’odio incrociato degli antagonismi di classe e se la fine della protezione fisica (ghetto) e giuridica (principe) è un presupposto per la progressiva assimilazione, tale assimilazione non sarà mai completa. Si tenterà anzi di trovare per l’ebreo una nuova forma di marchiatura, stavolta non più fondata sulla religione bensì sulla “natura”: i tratti fisici distintivi della “razza” ebraica verranno così enfatizzati e santificati dalla nuova scienza biologica.

La logica burocratica come cifra della modernità

In secondo luogo va compreso in questo contesto le modalità di annientamento della vittima designata. Gli ebrei entrarono nella modernità come figure caratterizzate da questa “illogicità” fondamentale: al tempo stesso arcaici e moderni, particolaristici e universali, fortemente caratterizzati e sfuggenti. Nel momento in cui il nazismo prese il potere, esso tentò di realizzare la sua utopia reazionaria (una società perfetta, identitaria in cui ogni elemento estraneo doveva essere espulso e, dove questo non fosse stato possibile, eliminato) con gli strumenti messi a disposizione della modernità: la macchina nella sua declinazione “umana” (burocrazia) e industriale.

Patterson ha esagerato enormemente l’importanza del secondo fattore (la divisione industriale del lavoro come invenzione dei macelli) dimenticando che è stato il primo a rendere socialmente possibile la Shoah. Auschwitz è essenzialmente figlio della mentalità burocratica perché “le regole della razionalità strumentale sono singolarmente incapaci di impedire fenomeni del genere” (p. 37). Cosa significa questo? Significa che quando l’agire sociale, emancipandosi dagli antichi “valori” e dalle norme di condotta tradizionali, si trasforma in pura razionalità strumentale, non esiste nulla che possa fermare i progetti moderni di “ingegneria sociale”, poiché ogni comportamento che si frappone alla realizzazione dello scopo prefissato diventa automaticamente “irrazionale”.

La cultura burocratica dalla quale siamo spinti a considerare la società come oggetto di amministrazione, come complesso di molteplici ‘problemi’ da risolvere, come ‘natura’ da ‘controllare’, ‘dominare’, ‘migliorare’ o ‘rimodellare’, come materiale su cui esercitare l’’ingegneria sociale’ […ha] creato l’atmosfera appropriata perché l’idea dell’Olocausto poté essere concepita, lentamente ma coerentemente sviluppata e portata a compimento (p. 37).

Laddove un progetto sociale è declinato in termini tecnico-burocratici non esiste più alcun criterio morale che possa intaccarne la logica e il funzionamento: quest’ultimo diventa un fine in sé e gli unici “valori” ammessi diventano quelli “tecnici” della lealtà, del dovere e della disciplina nei confronti dei superiori o, comunque, degli scopi dell’organizzazione di cui si fa parte. È stato questo che ha reso possibile quella “banalità del male” denunciata da Hannah Arendt nel caso dei funzionari nazisti bravi “padri di famiglia” che al tempo stesso spedivano ebrei nei forni crematori.

La razionalità come istanza di autoconservazione…e di autodistruzione

Ma la razionalità strumentale ha avuto un secondo, perverso ruolo nello sterminio degli ebrei. Come Bauman ricorda, infatti, il genocidio perpetrato nei confronti degli ebrei fu molto diverso da altre forme di omicidio di massa, inclusi quelli messi in atto dai nazisti stessi (ad esempio nei confronti delle popolazioni dell’Est Europa). Mentre il tentativo di sottomettere una popolazione attraverso la violenza, infatti, si preoccupa in primo luogo di falcidiare l’elite politica, religiosa e intellettuale, nei confronti degli ebrei i nazisti furono sempre attenti a preservare (o a creare ex novo) una struttura sociale gerarchica che potesse “dialogare” con l’amministrazione tedesca (p. 172). In questo modo, i nazisti fecero funzionare, in modo spesso (ma non sempre) inconsapevole, tale struttura in sinergia con le proprie istituzioni. Erano i Consigli ebraici ad amministrare non solo i ghetti ma anche la raccolta di denaro, di materiale e addirittura di persone destinate ai campi di lavoro e di sterminio. Ciò poté accadere perché, secondo un calcolo facilmente prevedibile, i Consigli ebraici non potevano che scegliere e propagare nella comunità ebraica il principio dell’autoconservazione come unica norma di condotta vincolante. Essi stessi funzionavano cioè in accordo con le leggi della razionalità strumentale, calcolando costi e benefici di ogni azione:

Gli ebrei erano una componente dell’assetto sociale destinato a distruggerli […] Incorporata nella struttura complessiva del potere, incaricata di un’ampia gamma di compiti e di funzioni all’interno di tale struttura, la popolazione condannata aveva apparentemente un ampio spettro di opzioni tra cui scegliere […]. Guidati nella propria azione da un intento di sopravvivenza razionalmente interpretato gli ebrei fecero dunque i gioco dei propri oppressori e facilitarono il loro compito, avvicinarono la propria fine. (p. 173)

Quando sul piatto della bilancia c’è la propria sopravvivenza, ogni atto può essere giustificato razionalmente. E così, cominciando dalle piccole “richieste” e vessazioni iniziali e incrementando progressivamente la forza di pressione sulla comunità ebraica, i nazisti poterono forzare il comportamento degli ebrei costringendoli dentro binari prevedibili: poiché il prezzo da pagare, per quanto alto, era sempre bilanciato con la salvezza della vita (per i superstiti), fu possibile fino all’ultimo calcolare il comportamento degli ebrei e inserirlo nel programma generale dell’organizzazione nazista.

La razionalità, adottata come norma di comportamento, agiva contro se stessa. Inoltre, essa portava alla degradazione morale della comunità ebraica stessa (p. 198) poiché incoraggiava l’assunzione generale del motto mors tua vita mea. Questo è un aspetto solitamente sottovalutato dei crimini nazisti (per tacere degli adepti del Paragone): prima ancora della morte e della sofferenza fisica, atroce fu l’abiezione cui i nazisti costrinsero la popolazione ebraica, facendo in questo modo combaciare l’immagine stereotipata dell’ “ebreo egoista” con la crudele realtà dei ghetti e dei campi di lavoro. Si trattò, come osserva giustamente Bauman, di una sorta di “profezia che si auto-avvera”. Fu così che i nazisti identificarono e poi addirittura realizzarono fisicamente l’idea dell’unwertes Leben, della vita indegna di essere vissuta (p. 102). Questa vita era considerata subumana ed essa poté essere spazzata via solo dopo aver subito processi simbolici e materiali di degradazione e “disumanizzazione” (pp. 41, 48, 147, 230).

La rimozione dell’animale in Bauman

Ed eccoci giunti al punto in cui l’analisi di Bauman, così precisa e dettagliata, non riesce ad identificare l’elemento di continuità tra l’oppressione umana e quella animale. Quando infatti parla di disumanizzazione, Bauman non si rende conto che solo la previa squalificazione della vita non-umana può permettere all’umano di essere trattato «come un animale» o degradato a «bestia». La visione di Bauman, da questo punto di vista, è tradizionalmente antropocentrica:

Solo gli esseri umani possono essere oggetto di giudizi a carattere etico. (È  vero che le valutazioni morali si estendono a loro volta ad altri esseri viventi non umani, ma ciò avviene solo ampliando un originario punto di partenza antropomorfico) (p. 149)

Quando infatti Bauman osserva, sulla scia di Lévinas, che la possibilità che la Shoah si ripeta può essere evitata solo tornando alle radici del rapporto etico intersoggettivo (e dunque non obbedendo alle regole sociali ma al vincolo immediato che mi lega responsabilmente all’Altro) perché solo una relazione morale può interrompere la logica omicida e suicida della razionalità strumentale, sta ovviamente descrivendo un legame tra umani. Non sembra esistere per lui la possibilità che tale legame possa essere originariamente anche un legame extra-umano, tra noi e la natura non-umana. Eppure cita più volte l’osservazione di Hannah Arendt secondo cui i carnefici nazisti dovettero «soffocare … la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri» (p. 39, corsivo mio).

La possibilità di mettere a tacere quella solidarietà “istintiva” con la creatura che soffre aveva ricevuto un forte sostegno nei decenni precedenti in Germania (e non solo) da una visione scientifica che operava una doppia riduzione: riduceva la cultura ad un fenomeno “naturale” e riduceva a sua volta la natura ad un cieco “meccanismo”. Fu in questa temperie culturale che “si riconobbe così che le leggi naturali scoperte per le piante e gli animali dovevano essere valide anche per l’uomo” (p. 106). Bauman commenta adeguatamente questa sovrapposizione:

La scienza non doveva essere sviluppata in modo fine a se stesso: essa era considerata, innanzi tutto e principalmente, come uno strumento di terrificante potere che consentiva ai suoi detrattori di migliorare la realtà, di rimodellarla secondo i piani e i progetti umani e di assecondarla nel suo cammino verso l’autoperfezionamento. […] L’esistenza e la convivenza umana divennero oggetto di pianificazione e di amministrazione: come la vegetazione dei giardini o gli organismi viventi, esse non potevano essere lasciate alle proprie tendenze spontanee, e meno che mai si poteva consentire che fossero minacciate da erbe infestanti o sopraffatte da tessuti cancerosi (ibid.).

Nel denunciare questa analogia, tuttavia, Bauman è lontano dal denunciare l’atto di dominio e controllo esercitato sulla natura stessa come elemento che condanna la razionalità ad esercitarsi solo in direzione del dominio. Eppure ricorda più volte come una delle metafore sociali preferite da scienziati, funzionari e gerarchi  nazisti fosse (accanto a quella della disinfestazione) quella dell’allevamento:

Ogni contadino sa che, se uccidesse i migliori esemplari  dei propri animali domestici senza lasciarli procreare e continuasse invece a far riprodurre gli esemplari più scadenti, le sue razze da allevamento andrebbero incontro a una irrimediabile degenerazione. Questo errore, che nessun contadino commetterebbe con i propri animali e le proprie coltivazioni, viene da noi consentito su larga scala in seno alla società. (pp. 107-108; cfr. anche pp. 161-162)

In tal senso, osserva Bauman, «la tradizione degli allevatori di bestiame e di altri manipolatori della biologia fu utilizzata dai nazionalsocialisti non soltanto nella soluzione della ‘questione ebraica’. Essa offrì ispirazione anche alla politica sociale nazista nel suo complesso» (p. 122n). Non si tratta, tuttavia, di una semplice fissazione dei nazisti, bensì di un processo oggettivamente – benché non “necessariamente” – iscritto nei presupposti della civiltà.

Bauman giunge spesso ad intuire come l’ipostatizzazione della ragione strumentale sia l’elemento centrale di questo processo: egli comprende cioè il fatto che gli individui siano socialmente espropriati della ragione e contemplino i processi di razionalizzazione come un potere a essi estraneo che li domina. Eppure non vede in questo, come fecero Adorno e Horkheimer, una conseguenza dell’aver isolato la ragione dalla natura, reciso il nesso tra umano e non-umano, abbandonato la mimesi col vivente per assumere il gelido principio della ragione calcolante (ciò che implicava, come correttamente diagnosticarono i francofortesi, non un rifiuto della mimesi, bensì una «mimesi del morto», poiché la voce della natura che viene repressa dalla civiltà non viene affatto cancellata, bensì solo rimossa). Scrive infatti Bauman:

Attraverso le lenti del potere moderno il “genere umano” appare così onnipotente e i suoi singoli membri così “incompleti”, inetti e remissivi, e così bisognosi di perfezionamento, che trattare le persone come piante da potare (se necessario, da sradicare) o come bestiame da allevare non sembra bizzarro o moralmente odioso (p. 161).

Tuttavia, la mancata denuncia di questo potere sorprende e sorprende tanto più in quanto Bauman arriva in alcuni passaggi a descrivere in modo esatto il rapporto tra civiltà e natura:

La cultura moderna […] definisce se stessa e la natura, nonché la distinzione tra le due cose, attraverso la propria radicata diffidenza verso la spontaneità e la propria aspirazione a un ordine migliore, necessariamente artificiale. […] L’ordine, concepito innanzitutto come progetto, determina poi quali debbano essere gli strumenti, quali le materie prime, che cosa è inutile, che cosa è irrilevante, che cosa è dannoso, quali sono le erbe infestanti o i parassiti. Esso classifica tutti gli elementi dell’universo in rapporto a se stesso. Questo rapporto è l’unico significato che esso concede loro e che tollera (p. 135)

La civiltà opera così in modo non solo da distinguere la natura come oggetto del proprio dominio ma anche di giustificare questo stesso dominio come giusto e inevitabile:

La civiltà occidentale ha articolato la propria lotta per il dominio come guerra santa dell’umanità contro la barbarie, della ragione contro l’ignoranza, dell’obiettività contro il pregiudizio, del progresso contro la degenerazione, della verità contro la superstizione, della scienza contro la magia e della razionalità contro le passioni. Ha interpretato la storia della propria ascesa come graduale ma costante sostituzione del domino dell’uomo sulla natura al dominio della natura sull’uomo (p. 140).

È chiaro che solo ponendo nel giusto rapporto il millenario dominio sulla natura con i processi specifici della modernità (razionalizzazione, burocratizzazione, ecc.) è possibile giungere a comprendere come la condizione degli ebrei sia potuta passare dalla persecuzione antisemita al progetto totalitario di sterminio. Questo processo, che pure si incrocia con quello dell’oppressione degli animali, ha le sue specificità che non permettono affatto di comprenderlo come “variante” logica o “conseguenza” storica del mattatoio industriale, come pretende Patterson. In secondo luogo, il mattatoio stesso andrebbe collocato dentro la storia della civiltà come fenomeno estremo di sfruttamento della vita animale e necessiterebbe, non di paragoni provocatori, bensì di un’analisi simbolica e materiale che sia almeno altrettanto approfondita di quella che Bauman dedica al fenomeno della Shoah. Sempre che si voglia davvero comprendere l’orrore invece che lasciarsene attraversare.

Se questo è un “meglio”

È chiaro che il grande problema di Patterson e di tutti coloro che diffondono il Paragone è che agiscono motivati da buone intenzioni e da cattive abitudini. Ciò che anima la stragrande maggioranza del movimento “animalista”, infatti, non è il desiderio di elaborare una teoria adeguata dello sfruttamento animale ma sottrarre gli animali alla morte. Lo strumento che finora il movimento ha scelto di mettere in pratica è stata la diffusione del veg*ismo: ed ecco che si cerca in ogni modo di trovare un argomento strumentale per difendere il proprio veg*ismo e attaccare il carnivorismo. Con questo si compie un duplice errore: si strumentalizza l’Olocausto a fini di propaganda (e sia pure una propaganda “a fin di bene” come quella che vuole sottrarre gli animali alla morte feroce nell’industria alimentare) e, quel che è peggio, ci si impedisce di analizzare in modo concreto i nessi storici tra sfruttamento umano e animale. Quest’ultimo sarebbe forse l’unico modo per inventare una prassi adeguata al compito di liberazione delle creature senzienti dall’oppressione e dal dolore. Ma è una via lunga e difficile che, soprattutto, implica un interesse reale per la fine dell’oppressione umana: sia perché se non si comprendono le cause dell’oppressione umana risulta difficile comprendere quelle dell’oppressione animale (a meno di non voler ridurre tutta la storia umana a semplice epifenomeno di un generico e astratto “egoismo”), sia perché risulta difficile immaginare una società che ponga fine allo sfruttamento del non-umano senza contestualmente porre fine allo sfruttamento sull’uomo[4].

Purtroppo, è duro doverlo ammettere, gran parte del movimento animalista è caratterizzato da una carica di misantropia che rende l’esplicitazione di questi nessi di potere molto difficili, se non impossibili. Tale misantropia può forse essere comprensibile alla luce del destino che la nostra società riserva agli animali, ma non è teoreticamente giustificabile e va abbandonata: sempre che si voglia difendere l’antispecismo, ovvero un rifiuto generalizzato della violenza e del dominio che implica, logicamente, il rifiuto della violenza e del dominio intra-umani. Il Paragone tra Auschwitz e i macelli, già solo per il modo brutale in cui viene solitamente proposto, si vena di tale misantropia. Ma se quel paragone non riempie il suo occhio atterrito di lacrime, vere, per le vittime umane che “usa” per denunciare le vittime animali, allora uccide quelle vittime una seconda volta. Quando un animalista sostiene, provocatoriamente, che la Shoah è «una bazzecola rispetto alla questione degli animali» si perpetua questa misantropia animalista. E io temo che, per quanto brutale, questa affermazione sia molto più vicina al pensiero di chi usa il Paragone di quanto si sia disposti ad ammettere.

Certo, non è chiaro perché lo sterminio degli animali dovrebbe essere “peggio” di Auschwitz. Forse perché ciò che fanno gli umani agli animali è sempre peggio di ciò che gli umani si fanno a vicenda? Difficile sostenerlo (ma c’è chi sarebbe in grado di farlo: confondendo vittime e carnefici, tutti gli umani sarebbero, in quanto aguzzini degli animali, aguzzini senza distinzione). Molto più probabilmente qui si riduce l’orrore ad una misura quantitativa: uccidere x esseri senzienti è peggio che uccidere x–n esseri senzienti. E visto che da un lato ci sono milioni di ebrei gasati e, dall’altro, miliardi di animali torturati e seviziati, allora… Ma, come abbiamo visto, l’uccisione fisica è stato solo uno degli elementi che ha determinato la singolarità aberrante della Shoah. Ci sono orrori che sono qualitativamente diversi, mostruosità etiche di fronte a cui la semplice tentazione di fare confronti è indice di insensibilità. Si pensi a ciò che Harlow ha perpetrato psicologicamente e fisicamente alle scimmie (madri e figli) dei suoi esperimenti. Dire che la sofferenza provocata ad alcune scimmie è “meglio” (perché laddove c’è un “peggio” deve esserci, a rigore, un “meglio”) di quanto accade nei macelli industriali alle mucche dovrebbe far accapponare la pelle perfino di un animalista misantropo. Dunque, lo stesso si dovrebbe ammettere anche nel caso di Auschwitz. Il numero fa orrore, certo, ma il brivido del raccapriccio morale non ha bisogno della contabilità della ragione per emettere il proprio verdetto. Anzi, dovrebbe forse imparare a farne a meno ed allenare lo strumento delicato del sentire. Uno strumento che, proprio per la sua delicatezza, deve essere maneggiato con cura: dobbiamo imparare ad usarlo per vedere meglio, non per farci accecare dal dolore.

E così, la volontà di provocare, ammesso e non concesso che sia un’arma adeguata in una battaglia culturale e militante, andrebbe in questi casi lasciata a chi difende la barbarie.


[1] D’altronde, lo stesso Patterson descrive la storia del dominio sulla natura da parte dell’uomo in modo notevolmente impreciso: è vero che pone il discrimine storico essenziale tra le società di caccia e raccolta e le società neolitiche ma poi sembra suggerire che l’uomo sia stato costretto “psicologicamente”, da una specie di meccanismo di difesa, a dimenticare la propria “affinità” con gli altri animali che ancora “sentiva” durante il paleolitico. Tale processo non è affatto psicologico ma sociologico e dunque è necessario parlare non dell’uomo in generale, ma degli umani nei loro rapporti sociali. Infatti, l’umanità è considerata da Patterson un tutto omogeneo che si distingue al suo interno solo dopo che gli animali sono resi schiavi. Al contrario, i processi di stratificazione sociale sono parte essenziale e non derivata dei meccanismi di espansione predatoria della società umana nel suo complesso. Sulla distinzione tra una visione “metafisica” ed una “storica” dello specismo cfr. M. Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Novalogos, Aprilia 2011.

[2] Questo discorso si pone in continuità con quello tentato da Antonio Volpe nel suo bel saggio “Il sacrificio inarrestabile”, cfr. infra. Il fatto che Volpe difenda il Paragone non deve trarre in inganno. Il suo è un discorso pienamente politico o iper-politico che non ha nulla a che fare con l’uso che Patterson e la vulgata internettiana fanno del Paragone stesso. Volpe disegna infatti un articolato scenario ontologico in cui riesce a collocare i due fenomeni senza appiattirli, né istituisce meccaniche derivazioni storiche dell’uno dall’altro.

[3] È incredibile come Bauman riesca a tacere l’evidente affinità tra le sue tesi e quelle di Adorno e Horkheimer. Ancor più sconvolgente il fatto che non solo egli taccia questa affinità ma addirittura citi Adorno solo per attribuirgli un’interpretazione limitata (cioè “psicologistica”) del nazismo desumendola dal lavoro collettivo La personalità autoritaria. Cfr. Bauman (2010, 213-214). Sul contributo di Adorno ad una corretta interpretazione del rapporto tra specismo e antisemitismo cfr. infra il saggio di Serena Contardi.

[4] Su questo cfr. M. Maurizi, Al di là della natura, cit.

Social e lavoro intellettuale

L’amico Vincenzo Costa ha recentemente pubblicato un post in cui mi stimola a riflettere sull’uso dei social da parte degli intellettuali. Colgo l’occasione per chiarire – come sempre anzitutto a me stesso e poi chi se ne vorrà/potrà giovare buon per lui – cosa penso di questo rapporto. Piccola premessa: chi scrive sta su FB dal 2009 e ha avuto un periodo molto intenso di “dibattiti” su questo social con un impegno di scrittura e di “ingaggio” del confronto che è andato progressivamente scemando nel corso degli anni. Anche i miei post – solitamente lunghi e articolati – si sono ridotti numericamente. Ciò ha motivi sia soggettivi (Costa scrive che stare su FB è “faticoso”, forse questo va qualificato meglio, ci proverò in quanto segue) che oggettivi (come sono cambiati i social dal 2009 al 2023: e anche su questo occorrerebbe riflettere).

Io credo di essere d’accordo con quello che Costa dice sul ruolo dell’intellettuale e sul modo di fare attività intellettuale, chiunque mi conosce sa che non solo non mi sottraggo al confronto ma anche che se c’è UNA qualità che nessuno mi vorrà negare è che si capisce benissimo quello che dico e che in generale le mie spiegazioni sono molto chiare: per il semplice fatto che non riesco a spiegare quello che non ho prima capito io. Tuttavia, ritengo che le conclusioni che traiamo dalle stesse premesse generali siano opposte. Vediamo perché.

In sintesi, la posizione di Costa mi pare sia questa:

1) la filosofia è intrinsecamente dialogica, vive nell’esposizione al confronto, nasce “nelle piazze” e qui ancora si realizza, nell’età moderna, come fattore di democratizzazione;

2) la filosofia non può essere un’attività autoreferenziale e ha bisogno di adeguarsi anche al linguaggio e al livello culturale di chi la recepisce;

3) questa capacità di chiarire non è solo un imperativo etico-pedagogico ma anche e soprattutto un modo per mettere alla prova ciò che si afferma, appunto, “chiarendolo” dalle ambiguità;

4) oggi la cultura non è in possesso di una cricca di mandarini privilegiati ma si “diffonde” in modo spontaneo, facendo emergere concetti/parole d’ordine al di là dell’intenzione di chi la pratica, nella “piazza” virtuale;

5) rifiutarsi al dialogo sui social interrompe la circolazione delle idee tra “sfera della cultura” e “mondo della vita”;

6) questa è un’idea difensiva aristocratico-elitaria alla Adorno ecc.

Ammettiamo, non sono convinto sia così, che la genesi della filosofia ne definisca anche l’essenza. Cosa non va nell’argomentazione di Costa? Lo dico in forma sintetica e poi cerco di spiegarlo meglio. Ritengo che

1-2) Non esista “l’intellettuale” o il “filosofo” come figura generale, universale, né che esista un destinatario “generale” a cui si rivolga. Esistono delle professioni intellettuali e una serie molto diversa di contesti in cui questa attività si esprime.

3) L’attività di “chiarimento” a cui siamo chiamati dipende quindi nelle sue forme, nei suoi tempi, nel suo linguaggio e nel suo impegno da questi contesti reali e virtuali diversi. È sbagliato confonderli e riportarli ad una forma comune.

4-5) Tanto l’attività intellettuale quanto questi contesti non sono neutrali, sia nel senso che la loro esistenza e la loro struttura e scopi sono determinati dall’azione modellante di forze (in primis di tipo economico) che nulla hanno a che fare con la ricerca della verità e che anzi la rendono impossibile, sia, di conseguenza, perché l’attività intellettuale che vi si svolge, se prende di mira la ricerca della verità, ha anzitutto bisogno di smascherare la falsa universalità di quei contesti.

6) Il nostro impegno intellettuale deve muoversi su piani diversi e con strumenti diversi, ha come destinatari gruppi diversi, livelli di elaborazione diversi, alcuni più densi altri più rarefatti. Compito dell’intellettuale è quindi anche il rifiuto di dinamiche falsamente “dialogiche” che appiattiscono queste differenze.

Ora discutiamo i tre problemi principali che vedo del post di Costa:

A) Anzitutto c’è per me un deficit di materialismo nella definizione della figura del filosofo/intellettuale. La filosofia non è un’attività spontanea che dei soggetti filosoficamente dotati svolgono nel tempo libero. È anzitutto un’attività intellettuale e come tale va considerata e giudicata all’interno delle dinamiche economiche del mondo di oggi. E qui non basta il riferimento al “mondo della vita”. Per parlare in modo non astratto del ruolo dell’intellettuale oggi forse bisognerebbe distinguere forme e finalità di questa attività, distinguere, che so, “accademismo”, “lavoro culturale” e “lavoro teorico-militante”…

B) Poi, conseguentemente, non mi sembra abbastanza precisa la definizione del contesto di questa attività, il rapporto tra reale e virtuale. Lo dimostra il fatto che “i social” non sono FB e che parlare dei “social” come se fossero FB significa dare una versione limitata e distorta non solo del rapporto tra intellettuali e social, ma anche, per usare i termini di Costa, del rapporto tra cultura in generale e mondo della vita. Il discorso di Costa vale anche per Instagram e Tik Tok? Mi pare proprio di no. Eppure, se dobbiamo dire cosa sono i social oggi, averne una visione realistica e non da “boomer” (quali sia io che lui siamo), dobbiamo riflettere anche su queste altre piattaforme.

C) Infine, al netto di tutto questo, anche ammesso e non concesso che la filosofia sia dialogo ed esposizione all’altro, da ciò non deriva né che gli scambi sui social siano effettivamente forme di “dialogo”, né – e questo è quello che mi interessa – che qualsiasi forma di rifiuto all’esposizione sui social sia un rifiuto del dialogo o un modo difensivo e acritico (non auto-critico) di fare filosofia.  

Ora, ognuno di questi punti richiederebbe una serie di articoli/lezioni, o un libro per essere discussa adeguatamente (per es. è abbastanza evidente che io e Costa divergiamo sul significato e la rilevanza della Lebenswelt in questo discorso). Se adesso io, per non sottrarmi al confronto, mi permetto di dire alcunché al riguardo lo faccio sempre con la convinzione che non sto rendendo giustizia né al tema in oggetto, né sto rispettando il mio interlocutore se non lo avviso che bisognerebbe parlarne e discuterne altrove con altri tempi e modalità di elaborazione. Perché senza questa riserva la mia “esposizione” si riduce, di fatto, ad esposizione al fraintendimiento. Certo, possiamo benissimo dire che “tutto è sempre frainteso” e quindi abbandonarci alla chiacchiera collettiva e lasciare che ognuno capisca e dica quello che vuole e gli aggrada. Ma io ho la sciagurata convinzione che invece si possano dire cose chiare, capirle e condividerne con altri per quello che effettivamente significano (ciò che non “chiude” l’ambiguità semantica di ciò che si dice e dunque la possibilità di chiarire o ampliare ulteriormente l’oggetto del discorso ecc.).

Dunque, mi permetto di esplicitare alcune cose che penso, nella piena consapevolezza che ciò che ne emerge sia del tutto opinabile in questa forma approssimativa e lacunosa.

Veniamo al punto A): chi sono gli intellettuali oggi e io che tipo di intellettuale sono? Beh io sono anzitutto un “lavoratore della conoscenza”, i tempi e modi della mia attività intellettuale posso deciderli solo in parte. Perché, e questo Costa lo sa, anche se docenti di scuola e di università hanno il privilegio di poter svolgere un’attività per loro piacevole il nostro tempo di lavoro e di vita è da diversi decenni sotto l’attacco di una ristrutturazione neoliberale che tende a “taylorizzarli”, scandirli secondo modalità che si sottraggono alla nostra capacità di determinarli in forma “libera”, autonoma. Sempre più l’attività intellettuale si contrappone all’intellettuale in forma alienata, sostanzialmente mercificata.

Ora, nel tempo che riesco a sottrarre a questa taylorizzazione della mia vita intellettuale cerco, con fatica, di svolgere un lavoro intellettuale degno di essere chiamato tale, cioè autonomo e utile nel senso del valore d’uso e non del valore di scambio: significa, per es, che a scuola faccio lezione in modo non da dare contenuti X da aggiungere al CV e mettere voti per premiare il merito o  far stampare diplomi, bensì in modo che gli studenti effettivamente capiscano ciò di cui si parla, sentano che quello di cui discutiamo è importante e può aiutarli a crescere intellettualmente come individui autonomi.

Al di fuori di questo lavoro c’è l’ampio terreno del lavoro che definisco, rozzamente, “accademico”, “culturale” e “teorico”. Ora, io non sono un accademico in senso stretto, per me la mia attività intellettuale non significa né che parlo di cose di cui sono “esperto”, né parlo di cose che mi piacciono e quindi non faccio lavoro “culturale” in senso ampio. Sì, mi sono occupato di Adorno, di Cusano, di musica, di marxismo e animali e per ognuno di questi campi avrei da dire cose specifiche, tecniche, filologiche, o scrivere dotte e piacevoli incursioni culturali. Ma lo faccio molto raramente, c’è chi lo sa fare meglio di me. Quello che mi interessa veramente è il lavoro teorico, critico e militante. Cioè discutere delle questioni che oggi mi sembra attentino alla nostra libertà individuale e collettiva, e quando intervengo su questi nodi lo faccio sempre in modo che gli strumenti culturali che ho siano fruibili dalla maggior parte delle persone possibili. Sfido chiunque a dire che nella mia attività intellettuale “pubblica” io abbia mai scritto qualche “fuffosità” o mi sia abbandonato al gergo per iniziati degli accademici o ai vezzi letterari della filosofia franzosa.

D’altronde, la figura dell’intellettuale oggi per molti versi è più “diffusa” di un tempo. Ci sono contenuti, scritti, ma anche video su youtube, di persone che svolgono un ottimo lavoro di chiarificazione che non ha nulla da invidiare a quello svolto da bravi docenti. Ci sono video di approfondimento molto ben fatti. Qualcuno ho provato a farlo anche io.

Ma il senso profondo che ha per me la mia attività intellettuale non può non andare, in questo momento storico, che in direzione della emancipazione da ciò che la impedisce. Per me non ha senso attività intellettuale che oggi non sia volta alla lotta contro ciò che la rende strutturalmente impossibile come attività libera. Dunque, il mio lavoro è anzitutto teorico e critico: smascherare le ideologie che accompagnano i processi materiali di irreggimentazione della vita.  

Ora, questo lavoro, che io svolgo prevalentemente nell’ambito del socialismo e della liberazione animale, ha bisogno di vari livelli di elaborazione e io cerco di partecipare con le persone con cui mi organizzo ad ognuna di questi: dalla scrittura e discussione di testi, alle interviste, alle “live” (in cui non mi sottraggo mai alle domande dirette), giù giù fino ai “post” e addirittura i “meme”. Perché in ognuno di questi livelli si può introdurre un elemento di rottura rispetto all’ideologia e innescare un processo di riflessione.

E l’ho fatto questo lavoro, modestamente, benino…tanto che un’espressione piuttosto astrusa come “antispecismo politico” è diventata a suo modo “virale” e oggi la usano in tantissimi nell’ambito dell’animalismo. Ed è successo esattamente quello che dice Costa, la “rete” ha deciso al posto mio: io avevo usato oltre ad antispecismo “politico”, anche espressioni come antispecismo “dialettico”, “storico” ecc. ma alla fine il significante che ha preso piede è stato quello. Pace. Ora c’è da lavorare perché gli si dia un significato che vada contro l’ideologia liberista e certe derive anarchiche che se ne sono appropriate, e appunto questo faccio da solo e insieme ad altri amici e compagni.

B) Cercare di costruire un sapere critico significa sottrarsi alle dinamiche mercificanti che i contesti in cui interveniamo producono. Ad es. i social non sono piattaforme neutre o neutrali in nessun senso del termine. Sono luoghi privati, posseduti da privati che, come si è visto più volte, possono censuare o oscurare contenuti a loro non graditi in modo del tutto arbitrario. Come ho scritto in risposta a Luca Baldassare, altro impenitente adorniano qui su FB, i social mostrano una dinamica materiale polarizzante e pericolosa: all’accumulazione di potere economico corrisponde una dispersione del nostro potere di chiarimento reciproco. Lo sintetizzo in altro modo: da un lato, concentrazione ed esaltazione del privato, dall’altro dispersione e deperimento dell’universale. Che significa? Significa che l’elaborazione del sapere si sta spostando da luoghi condivisi, magari non necessariamente “pubblici” ma riconosciuti come tali all’interno della comunità intellettuale, aventi regole culturali e deontologiche certe, verso piattaforme private, gestite in modo opaco da soggetti che non hanno alcun interesse culturale ma esclusivamente economico. Ciò che accade in questi spazi gentilmente concessi dal potere economico privato è la possibilità di scambi arbitrari, secondo tempi, modi e linguaggi che non hanno alcuna coerenza e cogenza. Il privato ha interesse ad aumentare il volume di questi scambi, non la loro qualità intrinseca. Eppure, l’operazione intellettuale che tentiamo di portare avanti, richiede invece specifiche qualità per non scadere a chiacchiericcio vacuo e autoreferenziale. L’uso che viene fatto dei social è perfettamente coerente con gli scopi perseguiti dal privato che vi investe il proprio capitale. La frammentazione, la mancanza di rigore, i tempi compressi dal botta e risposta, la tendenza a scrivere continuamente in qualsiasi momento della giornata ecc. sono tutte cose che fanno male all’esercizio del pensiero, ad un’autentica elaborazione teorica e culturale. Diventiamo produttori di opinioni, cioè merce culturale. Soprattutto, si assottiglia la distanza tra ciò che viene pensato in modo rigoroso e ciò che viene sputacchiato dall’opinare contingente e non vincolante. Con una perdita, anzi una dispersione di tempo ed energie enorme.

Non escludo che si possano creare piccole enclave di discussione proficua: un gruppo facebook, ad es., soprattutto se l’accesso e l’uso sono ristretti e sottoposti a regole precise, può essere un ottimo luogo di elaborazione culturale e teorica. Perfino un meme può essere intelligente e provocare uno stimolo critico. Ma penso che tanto il gruppo quanto il meme possano “funzionare” perché alludono sempre a qualcosa che si è prodotto fuori dal proprio ambito, appunto la forma classica dell’elaborazione del sapere fatta di tempi lunghi, costruzioni rigorose, regole culturali condivise.

Occorre poi anche riconoscere la tendenza alla trasformazione dei social in luoghi in cui l’apparenza conta più della sostanza: si passa dalla forma scritta (FB) all’immagine (Instagram e Tik Tok), con tempi di elaborazione ed esposizione del pensiero sempre più brevi. Esistono video di pochi minuti, talvolta poche decine di secondi che pretendono spiegare “contenuti” culturali. Non dico che non si possa fare, anzi immagino sia necessario e inevitabile, ma occorre differenziare i livelli di elaborazione. Ci sono oggi attivisti, influencer, filosofi “pop” che dedicano gran parte delle loro energie alla produzione di questi “contenuti” culturali: a ciclo continuo, con un occhio sempre attento ai followers, persone che si dedicano alacremente allo “scambio dialogico” e rendono “fruibili” concetti a moltissimi utenti.

È questa attività di chiarimento? È questa attività intellettuale? È questa filosofia? Beh, sì può esserlo, ma non per i modi in cui si dà, che anzi si oppongono agli scopi emancipativi che l’attività intellettuale e la filosofia dovrebbero avere, bensì per il modo in cui riescono a far emergere delle contraddizioni tra quei contenuti e la forma “social” in cui vengono espressi.  

E quindi C) l’intellettuale che non riduca i social a vetrina della propria attività accademica o culturale, e dunque voglia far teoria, ha il compito di fare un “giusto uso” dei social. La misura di questo giusto uso è produrre dei momenti di rottura rispetto al flusso instanscabile della comunicazione che vi si svolge. Riflettere a partire dal singolo intervento la totalità in cui quell’intervento accade. Far finta che la piattaforma sia una piazza come l’agorà solo “virtuale” non va in questa direzione, anzi, va nella direzione opposta perché dà a intendere che ci si stia muovendo nella sfera dell’universale mentre non si esce affatto da una dimensione privatistica.

L’intellettuale che compie uno sforzo per chiarire limiti e possibilità dell’attività intellettuale stessa non ha bisogno di cercare degli interlocutori: ne viene letteralmente inondato. Ora, poiché tanto più la sua attività diventa rilevante per un pubblico vasto tanto più cresce questa richiesta di “scambio intellettuale” egli si trova nella scomoda situazione di dover o abusare del proprio tempo privato e rispondere a “tutti”, quindi sottomettersi al processo di mercificazione integrale della propria esistenza, oppure, come spesso capita, di scegliere arbitrariamente a chi e cosa rispondere.

In effetti quel che faccio io è esattamente questo. Mi rifiuto di dare in pasto la mia attività intellettuale ad un pubblico casuale e di sottomettermi alla necessità estrinseca di chiarire ogni cosa mi venga richiesta. Anche perché capita spesso di aver già risposto mille volte a domande e dubbi e si può, ad es., richiamare risposte già date. Scelgo gli interlocutori e i temi in base all’unico principio che faccio valere nella mia vita privata di cui i social costituiscono una imperfetta rappresentazione e prosecuzione: il principio del piacere.

L’unica attività intellettuale verso cui invece sento un dovere morale è quella che mi lega all’attività militante, quindi alla teoria e ai suoi luoghi di elaborazione e diffusione. Che non sono, ripetiamolo, il commento sconclusionato dell’utente X mentre sta in fila alla spesa, ma, oltre a questo, per fortuna, le riviste, i siti, i blog, i profili (come quello di Gruppo di Antispecismo Politico) cui partecipo e in cui, non da solo ma insieme ad altri, cerco di dare forma ad una militanza intellettuale rigorosa, partecipata e articolata su più piani.

Dove, per es., si risponde anche alle domande bislacche o alle provocazioni (ammetto che c’è chi sa farlo meglio di me), ma appunto non in modo casuale, bensì ponendosi il problema non solo di come organizzare queste risposte ma anche dello scopo che si vuole dare al confronto.

La responsabilità dell’intellettuale, oggi, di fronte ad una situazione in cui si viene accerchiati dalla necessità del comunicare, è “vietarsi l’abuso ideologico della propria esistenza” (Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 2015, p. 19). Anzitutto quello che fa scambiare la vita sui social come solo un altro modo di darsi della vita in generale.

Si tratta piuttosto di lottare perché quella generalità della vita diventi effettivamente possibile.

Valutazione, misurazione e conflitto

Marco Maurizi

Valutazione, misurazione e conflitto

Esiste un problema relativo alla valutazione e alla misurazione del sapere nella scuola? E da cosa dipende? La misurazione implica sempre una qualche forma di traduzione del qualitativo nel quantitativo, riconduce il diffuso e variabile a criteri di uniformità e univocità. Come ho cercato di mostrare qui ( https://marcomaurizi74.wordpress.com/2022/09/21/la-contraddizione-qualitativa-fondamentale-del-capitalismo/ ) il problema del qualitativo può essere inteso razionalmente non come ciò che è vagamente e fumosamente altro dai meccanismi di quantificazione e misurazione bensì come ciò che esprime un conflitto interno al processo di razionalizzazione capitalistico. In questo modo il qualitativo si mostra come espressione di una contraddizione immanente alla forma della ragione e dunque espressione di interessi legittimi, a loro volta razionali, universalizzabili, che però non trovano spazio nel modo in cui la società di classe riduce dall’alto e distorce, in senso particolaristico, quei meccanismi di ordinamento e manipolazione della realtà.

Quando si parla di valutazione e mondo della scuola questo aspetto della questione viene completamente eluso e tutto si muove in un mondo ideale, astratto, dove quelle dinamiche di classe e il loro effetto distorsivo sui processi di quantificazione improvvisamente non esistono più. Si predica, da un lato, la pura e semplice celebrazione tecnocratica della misurabilità assoluta del sapere (i test) con la conseguente parcellizzazione dell’insegnamento in parti perfettamente e aprioristicamente quantificabili: il processo di apprendimento ridotto a catena di montaggio; oppure, in senso opposto, la valutazione diventa uno dei mali della scuola, una forma di potere maligno in mano ai docenti che occorrerebbe quanto prima sottrarre loro per far emergere altro, un vago e indistinto altro, qualitativamente contrapposto ai freddi numeri scarabocchiati dagli insegnanti.

Questi due approcci opposti, il primo caldeggiato dal Ministero, il secondo da alcuni pedagogisti di sinistra, finiscono alla fine per convergere nello stesso risultato: spossessare il docente della propria autonomia (essendo il docente, come ho provato a spiegare qui, un lavoratore sui generis, cioè una figura specifica di intellettuale improduttivo: https://www.kulturjam.it/costume-e-societa/la-scuola-della-crisi-lavoro/ ). Questa autonomia si mostra anche nel modo in cui egli è costretto ad affrontare ogni volta il problema del rapporto tra qualitativo e quantitativo. Perché nel processo di valutazione questo elemento di ambiguità è sempre presente, è ineliminabile. Ma ciò che si svolge qui è esattamente un processo contraddittorio e conflittuale, espressione a sua volta di contraddizioni e conflitti che derivano dall’essenza stessa della società e della ragione in cui siamo, per così dire, nostro malgrado gettati.

Eliminare la contraddizione a valle (nella valutazione) non la fa sparire magicamente a monte, cioè dalla realtà, come vogliono i due modelli complementari sopra delineati: che si renda integralmente misurabile la valutazione o la si cancelli tout court significa lasciare agire una forma distorta della quantificazione o un qualitativo senza forma, dunque lasciare agire indisturbati due modi dell’irrazionale, significa lasciar esplodere una contraddizione nella forma che è attualmente utile al potere economico. Nella sua lotta immaginaria – e comunque di retroguardia – contro il “potere” dei docenti è questo che fa la stessa pedagogia di sinistra.

Al docente è infatti demandato il compito, certo oneroso e probabilmente impossibile, di lottare contro due forme opposte di irrazionalità che dall’alto e dal basso ne dissolvono l’autonomia e l’operare specifico. È proprio nella sua figura di mediazione che emerge il modo determinato in cui egli si fa carico di quella contraddizione e la assume su di sé. La contraddizione tra quantitativo e qualitativo, dunque, qui si sdoppia su due livelli opposti, ponendolo al centro di una lacerante dinamica destinata a spezzarne e alla fine dissolverne la funzione intellettuale.

Da un lato, rispetto al modello ministeriale, efficientistico e aziendalistico, l’idea di spossessare il docente del compito della misurazione/valutazione per tradurlo in un processo sequenziato e perfettamente misurabile va nel senso di cancellare la resistenza che l’insegnante oppone ad un meccanismo che può fare senz’altro a meno del suo contributo intellettuale autonomo: si riduce la sua attività al minimo, lo si rende a sua volta parte passiva del funzionamento della macchina generale, riducendo sempre più la sua possibilità di determinare tempi, modi e fini dell’attività di insegnamento. Qui, la valutazione/misurazione del docente appare come il qualitatitvo in senso negativo-oppositivo, perché si definisce a partire da un conflitto con un’istanza razionalizzante ed efficientistica che tende a rendere sempre più fluido, manipolabile e spendibile il suo lavoro intellettuale. Come il lavoratore ha interesse ad opporsi al consumo della sua merce-lavoro da parte del capitale secondo i dettami di quest’ultimo e dunque resiste alla quantificazione integrale della propria vita, così il lavoratore-intellettuale si oppone tanto alla riduzione della sua attività in merce, quanto anche, prioritariamente, alla sua traduzione in termini quantitativi, alla sua meccanizzazione, alla sua riproducibilità tecnica.

Dal lato opposto, questa attività consiste proprio nel mediare tra le istanze opposte della vita e della forma, del molteplice e irriducibile in cui si incarna l’esperienza degli studenti e la sfera dell’universale, del razionale, del mondo di senso oggettivato nella cultura scientifica e umanistica di cui il docente deve farsi tramite. Qui egli opera nel senso di adeguare degli standard formali al vissuto materiale degli studenti, di adattare le esigenze della razionalità così come gli giungono dalla tradizione accademica alle esigenze e ai bisogni delle classi. E viceversa: di permettere agli studenti quanto più possibile l’accesso e l’acquisizione adeguata di quei saperi. Gli studenti non sono lavoratori e il docente non è il loro datore di lavoro, qui il rapporto tra qualitativo e quantitativo funziona in modo diverso: quando gli studenti si “adeguano” al sapere di cui il docente si fa tramite non perdono qualcosa della propria vita e libertà, ma acquisiscono qualcosa che arricchisce quella vita e dà forma a quella libertà. Ma come la mettiamo con i “voti”?

Ora, ci sono due aspetti per cui questo adeguamento passa attraverso un processo di valutazione. Essi attengono al doppio ruolo del docente: quello di funzionario pubblico e quello di lavoratore improduttivo, cioè di intellettuale sui generis. Se al primo ruolo spetta la necessità della valutazione in quanto presupposta dal valore legale del titolo di studio, al secondo ruolo essa spetta in quanto egli non può non giudicare il livello cui gli studenti complessivamente e come individui hanno fatto propri i contenuti disciplinari che egli veicola. Si tratta di due giudizi che si sovrappongono ma non coincidono: il fatto che il voto finisca per farli convergere non ne cancella la differenza. E ciò emerge chiaramente nel fatto che in entrambi i casi il docente giudica e ma nei due giudizi l’elemento quantitativo si comporta in modo diverso.

Rispetto al ruolo di funzionario pubblico, infatti, la valutazione del docente va misurata perché per definire l’accesso o meno ad un titolo occorre misurare rispetto ad uno standard preventivamente definito una performance o alcuni elementi oggettivi del percorso che è stato compiuto per accedervi. Qui l’oggettività è quella dei requisiti di accesso al titolo e, in un certo senso, è legittimo che essa venga resa quanto più univoca possibile, attraverso una definizione rigorosa di ciò che non può mancare perché il titolo venga conferito. Non c’è alcun contrasto tra quantitativo e qualitativo, non c’è conflitto, tutto si gioca nella dimensione della pura misurazione che viene definita dalla legge. Semmai conflitto dovesse palesarsi sarebbe tra questa definizione legale e bisogni che la sua forma determinata (e quindi parziale, interessata, calata dall’alto) cancella, reprime, distorce. Ma, appunto, perché si possa contestare legittimamente, razionalmente questo atto di misurazione occorrerebbe far emergere il qualitativo che quella misurazione arbitrariamente nega sottraendolo alla forma di una razionalità condivisa: stante l’attuale condizione sociale, in cui l’accesso al sapere e alle professioni sono già sottoposti al potere distorcente del capitale e del mercato si tratterebbe di mettere in discussione la funzione ancora classista della scuola. Ma per fare ciò non basterebbe riformare la valutazione scolastica bensì prioritariamente il contesto classista in cui la scuola opera. Poiché l’esistenza del valore legale del titolo è piuttosto l’elemento che si oppone al dominio incontrastato del capitale e della sua razionalità tecnocratica. La scuola pubblica rappresenta qui il qualitativo-conflittuale, l’elemento di resistenza ad un’assimilazione integrale alla logica totalitaria dell’economia di mercato che ben vedrebbe, piuttosto, una liberalizzazione dell’insegnamento e la definitiva privatizzazione dei processi di formazione e culturali in genere. In assenza di un’azione volta allo smantellamento dei privilegi di classe la critica alla valutazione scolastica si trasforma de facto in una critica al valore legale del titolo di studio. Per questo opera in sostanziale sinergia con la quantificazione dell’insegnamento e la sua riduzione a processo meccanico per testare obiettivi disciplinari sempre più parcellizzati e misurabili.

Il secondo ruolo del docente, quello di lavoratore improduttivo, cioè il lavoro intellettuale sui generis, porta con sé un’esigenza di valutazione che non si aggiunge esteriormente ma è parte essenziale del processo di insegnamento. Poiché il docente non potrebbe, neanche se lo volesse, non rendersi conto del livello cui le sue classi complessivamente e individualmente lo seguono nel lavoro che svolge. Poiché questo lavoro è essenzialmente dialogico ma costituisce una forma del tutto peculiare di dialogo: perché qui il “tu” cui il docente si rivolge è al tempo stesso prodotto della sua azione formativa. Quando il docente parla con gli studenti ha di fronte a sé delle persone (ognuna diversa, singolare, irriducibile, presa in un momento determinato della sua molteplice e sempre nuova esistenza ecc.) ma la parte sostanziale del suo dialogo è rivolto non a queste persone, bensì ai matematici, ai filosofi, ai letterati, agli storici, agli artisti, agli economisti, ai giuristi ecc. che egli sta formando. Il dialogo educativo è paradossale perché deve evocare il “tu” a cui si rivolge, deve cioè rendere possibile il dialogo a partire dalla capacità di acquisire i contenuti disciplinari che esso dovrebbe veicolare. “Un dialogo che ha come scopo rendere possibile il dialogo”: non si può uscire da questo paradosso che sta al cuore del lavoro docente.  

Ma paradosso qui non significa irrazionalità o arbitrarietà. Tutt’altro. Seppure non sia possibile oggettivare quel livello nello stesso modo con cui si può certificare il possesso o meno di un requisito per un titolo, quella oggettività e quel livello esistono, non sono puramente fantasmatici. E non sono esterni al rapporto educativo, perché questo si costituisce proprio a partire da quell’oggettività verso cui si dirige lo sguardo del formatore e che incessantemente guida il suo personale ma ineludibile processo di verifica del livello di apprendimento dei discenti. Qui l’elemento qualitativo rappresentato dalla variabilità pressoché infinita dei concetti, delle parole, delle immagini, dei valori, delle sensazioni che spontaneamente si muovono nell’animo degli studenti è ciò che va ricondotto ad una forma di oggettività che non può che essere esterna, estranea, aliena e a volte persino respingente, poiché implica una trasformazione interiore, un lavoro su di , un movimento contrario a quella spontaneità. Il lavoro del docente agisce qui come catalizzatore di un lavoro parallelo ma non identico che viene svolto dal discente: il fine è quello di rendere sempre più preciso o precisabile il vissuto di quest’ultimo e permettergli così di accedere a quell’oggettività del sapere dall’interno. Qui l’oggettività è quella della corretta espressione, della dimostrazione rigorosa, dell’interpretazione ben argomentata e così via.

È chiaro che non c’è alcuna necessità di misurare il livello di questa oggettività, benché il docente capisca in modo abbastanza agevole a quale livello (o a quali livelli) si collochi l’acquisizione del sapere di chi gli sta di fronte. La confusione nasce quando si scambia il voto come misurazione dei requisiti di accesso ad un titolo di studio con la determinazione del livello di acquisizione dell’oggettività dei saperi. Ma come non si può pensare di abolire quella valutazione senza indebolire fino a distruggere la resistenza che la scuola pubblica oppone ai processi di mercificazione del sapere, così nemmeno si può pensare di abolire l’elemento della valutazione nel lavoro docente preso di per sé. Poiché questa valutazione opera necessariamente e anche senza alcuna intenzione da parte del docente, la sua cancellazione vorrebbe semplicemente dire che il docente smette di comunicare agli studenti il livello cui egli pensa siano giunti, cioè tronchi il dialogo educativo, smetta di considerarli soggetti attivi che hanno il compito di costruirsi un sapere in grado di interagire col suo. Si può certo dibattere sui modi e i tempi in cui questa valutazione possa essere formulata ma non la sua necessità intrinseca.

Non è qui infine il caso di discutere se il rapporto docente-studente rappresenti poi a sua volta un’alterità qualitativa, una forma di contraddizione permanente rispetto ai processi cognitivi messi in atto dal capitalismo, piuttosto che semplicemente il residuo di una forma di trasmissione del sapere resa obsoleta dallo sviluppo tecnologico (ne ho parlato qui: https://www.policlic.it/download/policlic-n-18/). Ma quel che è certo è che tutti i tentativi di “riforma” della scuola che puntino il dito sui difetti della scuola stessa piuttosto che su quelli del sistema produttivo – di cui i processi di produzione e riproduzione del sapere sono loro malgrado parte – non sono solo “parziali”: sono proprio sbagliati e vanno respinti fermamente. Non è possibile affrontare il problema della qualità scolastica ignorando il processo che sta alla radice della quantificazione della vita e della forma distorta di razionalità sociale che ciò implica. Mentre non è affatto chiaro se e in che senso gli studenti verrebbero “liberati” dalla cancellazione della valutazione, è certo che essa non si limiterebbe a sottrarre qualcosa ai docenti ma anche a loro.

Una “scuola di qualità” non è una scuola che rinuncia alla quantificazione ma al contrario che fa della qualità un’esigenza politica, di conflitto rispetto a processi di razionalizzazione che a livello sociale si svolgono ormai in modo reificato e distorto, minacciando, assieme all’autonomia del lavoro-docente, le possibilità di autodeterminazione di tutti i soggetti in essa coinvolti: studenti compresi. Ed è solo dal loro protagonismo politico, in caso, che potrebbe nascere un autentico movimento di contestazione di quei processi di quantificazione. E dunque dell’ambiguità e delle aporie della stessa valutazione scolastica. Tuttavia, l’autenticità di tale processo emancipativo non potrebbe misurarsi sull’impeto soggettivo, sull’impulso irrazionale alla liberazione di vincoli esterni: esso sarebbe a sua volta partecipe ed espressione di un processo di razionalizzazione solo se si fosse misurato effettivamente con l’oggettività del sapere che è ineludibile strumento di comprensione e trasformazione della realtà. E, dunque, dagli stessi studenti potrebbe partire un movimento di contestazione della valutazione solo se esso si facesse a sua volta carico di quel processo di verifica senza il quale non c’è alcun sapere, alcuna oggettività, alcuna razionalità e, alla fine, alcuna libertà.

La contraddizione qualitativa fondamentale del capitalismo

[Estratto da Marco Maurizi, Attualità dell’utopia. Per una ricostruzione della Teoria Critica in Marcuse, in “Spazi di filosofia“, settembre 2021]

Che sia possibile un cambiamento qualitativo dal lato della produzione è dovuto ad un fatto molto semplice. C’è un’opposizione qualitativa alla base del modo di produzione vigente: quella tra Capitale e Lavoro. La distinzione tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono i mezzi di produzione, tra chi lavora e chi comanda il lavoro altrui non è quantitativa, non è questione di “grado”[1]. Certo, è una differenza che opera e si traduce in termini quantitativi ma che resta irriducibile e, anzi, può operare quantitativamente proprio perché il suo nucleo si sottrae alla quantificazione: il capitale comanda il lavoro, il lavoro non comanda il capitale.

Tale opposizione opera quantitativamente poiché la differenza di potere sociale che promana da quei due poli è definibile in termini quantitativi: non solo la differenza di ricchezza esprime livelli di potenzialità sociali diversi ma tutte le caratteristiche di questa società sono dominate dalla quantità (l’uguaglianza “formale” tra salario e lavoro, la riduzione del lavoro alla sua forma astratta/omogenea, il denaro come equivalente universale, il processo di autovalorizzazione del capitale, l’efficientizzazione dei processi produttivi, la standardizzazione delle merci ecc.). L’intero edificio, tuttavia, poggia su una base che non viene intaccata da quelle operazioni, né può essere rimossa per via di trasformazioni quantitative. Quell’opposizione si traduce così in un sistema quantificante in cui i bisogni vengono modificati grazie all’influsso della scienza e della tecnica sia nella sfera della produzione che in quella del consumo. In questo modo, appunto, le qualità di cui è fatta la vita cambiano – salti locali della quantità in qualità – ma solo se l’opposizione qualitativa da cui si originano resta immobile. In altri termini, la vita, ovvero ciò che la governa al fondo, non cambia.

Il problema della “qualità della vita” va infatti posto distinguendo il tempo di lavoro e il tempo libero. In entrambe le sfere della vita c’è consumo di merci ma in relazione inversa. Nel tempo di lavoro siamo merci consumate dal capitalista, nella sfera del consumo siamo consumatori di merci. Ora, il cambiamento qualitativo dal lato del consumo non può avvenire se non attraverso l’antagonismo nella sfera produttiva dove avviene il consumo di forza lavoro da parte del capitale. Qui l’opposizione dei lavoratori al proprio sfruttamento non va semplicemente in direzione del rendere “migliore” la qualità della merce-lavoro per il capitalista (ciò che nei termini di questo consumo significherebbe piuttosto una sua maggiore disponibilità e malleabilità), bensì nell’opporre la non consumabilità di questa merce, pretendendo una riappropriazione del tempo di vita[2], fino all’abolizione del carattere di merce del lavoro tout court. È solo rendendo qualitativamente peggiore questa merce per il consumo capitalista che può realizzarsi un miglioramento qualitativo nella soddisfazione generale dei bisogni, sottraendo perciò anche le altre merci all’effetto distorsivo del profitto. Anche in questo caso, dunque, è fondamentale l’abolizione del carattere di merce dei beni consumati, cosa che non può avvenire direttamente nella sfera del consumo, attraverso il volontariato o la creazione di un mercato “alternativo” ad es., perché ciò non intaccherebbe lo scambio di merci generalizzato, rimarrebbe al di qua della dinamica di universalizzazione operata dal capitale, resterebbe cioè consumo privato, qualitativamente orientato, sì, ma indifferente allo sviluppo del modo di produzione capitalistico (oppure, ne verrebbe riassorbito come forma di mercato “alternativo”, come beni di “lusso”, vedi oggi il fenomeno del green washing ecc.).

L’accumulazione quantitativa è così alla radice di tutti i malesseri sociali che vengono percepiti qualitativamente dall’esperienza soggettiva ma che, proprio per ciò, sono così difficili da determinare oggettivamente. Pensiamo allo “spreco” o alla “distruzione delle risorse”. È chiaro infatti che per definire lo “spreco” c’è bisogno di un criterio che non sia a sua volta quantitativo o, che è lo stesso, sia definito a partire da criteri, anche quantitativi, ma antagonisti rispetto a quelli che determinano l’optimum della produzione vigente: ovvero ciò che garantisce il processo di accumulazione capitalistico[3].

Ma la questione ha un ulteriore aspetto paradossale. Perché l’origine del Capitale, in realtà, è geneticamente e sistematicamente, il Lavoro: il Capitale è lavoro accumulato, morto che succhia lavoro-vivo. Dunque, nell’opposizione tra Capitale e Lavoro, il Lavoro è la realtà, l’elemento ontologicamente prioritario, è cioè un’attività che si contrappone a sé stessa, ora come merce, ora come denaro, come capitale[4]. Ed è così riconducendo le diverse qualità delle merci e della soddisfazione dei bisogni alla radice comune nell’attività lavorativa che è possibile evidenziare la necessità di una ridefinizione di tutti questi bisogni a partire dalla sfera della produzione, togliendo l’opposizione qualitativa tra Capitale e Lavoro, un’opposizione fenomenica (cioè di un’apparenza che produce effetti reali) che distorce il funzionamento della società nel suo complesso. Considerare la libertà dal punto di vista dell’organizzazione della produzione, dunque del Lavoro come attività primaria, significa non solo rimuovere l’alterità illusoria del Capitale per permettere una reale auto-organizzazione del Lavoro, ma anche collocarsi nel punto di origine di tutte quelle opposizioni su cui si erge e si stabilizza la società del presente: non solo quella tra produzione e bisogni, ma la stessa opposizione tra quantità e qualità.

L’opposizione centrale tra Capitale e Lavoro può e deve essere articolata, ovviamente, in quelle tra denaro e forza-lavoro, tra profitti e salari, tra capitalisti e salariati a livello della loro incidenza nella popolazione mondiale. La configurazione dialettica dell’opposizione centrale si mostra qui in modo esemplare. Le opposizioni derivate profitti/salari e capitalisti/salariati, ad es., sono inversamente proporzionali, misurando la prima il dominio, la potenza sociale del capitale che si accompagna ai fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale stesso e, la seconda, il grado di “proletarizzazione”. Ora, nella nostra opposizione fondamentale la distinzione collettiana tra contraddizione e opposizione reale, Widerspurch e Realrepugnanz[5], cessa di essere rilevante. Il lavoro è una forza reale, materiale che, in questo processo di sussunzione da parte del capitale, viene contrapposta a sé stessa. La struttura della quantificazione che sorge da tale opposizione ha come telos (fine unico reale, come causa teleologica, benché non unico effetto) il processo di profitto e accumulazione (D-D’). Le decisioni politiche che regolano questo conflitto riguardano l’organizzazione del lavoro nella sfera della produzione, la sua direzione, intensità e finalità: questi elementi hanno la propria misura interna, sistemica, in quella struttura quantificante. Ciò è talmente vero che gli effetti delle politiche del lavoro sono quantitativamente calcolabili: andare, per es., in direzione di una riduzione dei salari o dei profitti produce un conseguente spostamento del potere di dominazione sociale del capitale. “Il cambiamento quantitativo può significare e può portare alla rivoluzione”[6], scrive giustamente Marcuse, ma solo se ha di mira l’abolizione dell’opposizione qualitativa fondamentale. Qualora infatti un governo tentasse una soluzione rivoluzionaria di quel conflitto e dunque la cancellazione del potere del capitale ciò potrebbe avvenire solo attraverso la catastrofe di quella struttura di quantificazione.

Proprio questa catastrofe, dunque, non può avvenire quantitativamente all’interno del sistema capitalistico, attraverso la piena automazione che viene costantemente impedita dalla stessa dinamica interna del Capitale che la favorisce[7], né avviene automaticamente con l’esproprio dei mezzi di produzione. E che non sia così lo dice lo stesso Marx quando teorizza il famoso passaggio dal socialismo al comunismo come superamento definitivo del principio di scambio sopravvissuto alla fine della “vecchia società”[8]. Come vedremo, infatti, tutta la problematica del “salto qualitativo” dal socialismo al comunismo è assolutamente speculare alla teoria marcusiana del “gran rifiuto” come tentativo di spezzare il totalitarismo della società capitalistica avanzata.


[1] Come vedremo, l’affermazione di Marcuse sul fatto che la classe operaia dei paesi industrializzati, perdendo la sua “negatività” rispetto al sistema, la sua “differenza qualitativa” dalle altre classi, “non è in grado di creare una società qualitativamente differente” (H. Marcuse, “Socialism in the Developed Countries”, in H. Marcuse, Marxism, Revolution and Utopia. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 6, Routledge, New York – Londra 2014, pp. 178-179) non significa mai il superamento ma solo la sospensione della contraddizione centrale tra Capitale e Lavoro. Cfr. le puntualizzazioni di P. Mattick, “The Limits of Integration”, in K. H. Wolff – B. Moore (a cura di), The Critical Spirit: Essays in Honor of Herbert Marcuse, Beacon Press, Boston 1968, p. 398.

[2] “For capitalism is based on an inherent antagonism and struggle between diametrically opposed material forces. The class struggle is this selfsame process; indeed, it is the disruption and nonreproduction of capitalist social relations, their refusal and potential rupture, in which the future becomes truly unwritten, and a glimpse of a mode of life qualitatively beyond the form it presently takes as it is not lived”. Ch. Garland, “Negating That Which Negates Us. Marcuse, Critical Theory, and the New Politics of Refusal”, in Herbert Marcuse and Contemporary Social Movements, cit.,p. 61.

[3] Lo stesso potrebbe dirsi delle questioni ambientali: il grido di allarme che da cinquant’anni a questa parte si leva contro l’inquinamento era assolutamente vero allora come oggi. Ma il “punto di non ritorno” viene spostato sempre in avanti poiché fondamentalmente anche il suo grado di “tollerabilità” si misura nell’antagonismo che gli si oppone socialmente.

[4] È chiaro che questa torsione su sé stesso del lavoro è a sua volta effetto del capitale, ovvero di una specifica configurazione storica delle forze e dei rapporti di produzione. Non è il lavoro “in generale” a produrre il capitale, semmai è il capitale e a porre in essere il lavoro salariato generalizzato. La nozione di capitale come “presupposto posto” deve rendere conto anche di questo paradosso in cui l’analisi genetico-storica e quella sistemica-teorica del capitale si intrecciano originariamente. Come vedremo più in là, quando Marx sembra riprendere quasi con le stesse parole l’analisi “antropologica” del lavoro dei Manoscritti nella prima parte del Capitale questa è tuttavia superata (aufgehogen?) nell’analisi del lavoro astratto e della sua relazione con l’accumulazione capitalistica.

 [5] Soprattutto perché non c’è alcuna “unità originaria” che va scindendosi in due. Cfr. L. Colletti, “Marxismo e dialettica”, in Id., Intervista politico-filosofica, Laterza, Bari 1075, p. 111.

[6] H. Marcuse, “Liberation from Affluent Society”, in Id., The New Left and the 60s. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 3, Routledge, New York – Londra 2005, p. 79.

[7] H. Marcuse, “Socialism in the Developed Countries”, cit., pp. 173-174n

[8] K. Marx, Critica del programma di Gotha, Feltrinelli, Milano 1968, p. 16.

Cosa simboleggia l’ordine simbolico?

L’ordine simbolico simboleggia sé stesso. A chi? Forse ancora a sé stesso. Così facendo pone, nell’ordine simbolico, l’ordine del non-simbolico. La vangloria del filosofo, si dice, gli fa poi invertire l’ordine reale e considerare questo mondo di simboli, pensieri, analogie e sentimenti qualcosa di più rilevante del suo altro.

L’ordine simbolico sembra essere un fenomeno quantitativamente irrilevante nel grande opificio cosmico, un breve bagliore di coscienza nell’infinita notte della materia che vortica senza scopo. Cosa sono 300.000 anni di cultura nella vastità del nulla che la avvolge da ogni parte?

Per questo Pascal attribuiva un valore qualitativo alla res cogitans quando la innalzava al di sopra della natura che la schiaccia. Tuttavia, ammesso e non concesso, che l’ordine simbolico riguardi solo gli umani e solo i terrestri, la sua esistenza non andrebbe valutata esclusivamente in termini complessivi, poiché esso si articola nelle relazioni tra gli individui che se ne fanno portatori.

Solo sul nostro pianeta sono vissuti dai 90 ai 110 miliardi di esseri umani. In ognuno di loro, per un’età variabile da pochi a decine di anni, l’esperienza simbolica ha costruito un mondo di senso, di sentimenti e di relazioni. E in ognuno di essi l’orizzonte comune e universale ha preso una forma singolare, specifica e irripetibile. Ogni morte è, come dice Derrida, la fine di questo mondo unico e incomunicabile.

L’ordine simbolico trova il proprio confine nella morte che attraversa e oltrepassa di continuo pur non potendo mai inglobarne la radicale alterità, né significarla al di fuori di questa relazione/irrelazione di esteriorità.

Il simbolico non giunge al reale se non nell’attimo in cui quest’ultimo lo schianta. Per questo non esiste vero universale se non nel pensiero della mortalità che ci accomuna.
E per questo, in ultima istanza, la solidarietà scrolla le spalle di fronte alla nullità del vivente nei confronti dell’indifferenza cosmica.

Non nonostante ma a causa della sua fragilità ha senso la cura per tutto ciò che soffre e dilegua. Al ricordo delle generazioni senza nome e senza ormai speranza si accende quel bagliore che dice no all’annientamento.

L’ordine simbolico non è il trionfo sulla morte e sul nonsenso ma il fremito che attraversa tutte le cose nella condivisione dell’esperienza della propria persistenza. Esso si dischiude verso l’esterno nelle faglie che lo attraversano, nelle ferite da cui sgorga il suo inarrestabile bisogno di dire l’indicibile.

Benvenuti nel deserto della scuola. Per una teoria critica dell’insegnamento

Oggi su Policlic n. 18. Di seguito un’anteprima dell’articolo:

Marco Maurizi

Benvenuti nel deserto della scuola. Per una teoria critica dell’insegnamento

Un sapere servo di due padroni

Noi docenti pretendiamo di insegnare letteratura, filosofia, arte, matematica ecc. E abbiamo anche la folle pretesa di decidere se e quanto i nostri studenti raggiungano livelli mediocri, sufficienti o eccellenti. Da decenni la didattica subisce un attacco frontale alla sua componente asimmetrica, si assottigliano i programmi e quella pretesa di valutare nel merito viene sempre più contestata, e siamo costretti di fatto ad abbassare il livello dell’insegnamento. Oggi capita spesso di accettare come sufficiente o addirittura discreto un livello culturale che fino a dieci anni fa avremmo considerato mediocre[1].

Ma in quale disciplina, al di fuori dell’insegnamento scolastico, potrebbe giustificarsi una cosa simile? Quale insegnante di chitarra, di judo o di guida accetterebbe di abbassare i propri standard e far passare come bravo chitarrista, atleta competente o abile guidatore uno studente a malapena mediocre? E chi accetterebbe come insegnante uno che sa che gli dirà sempre che è bravo anche se non apprende niente? Ecco, non si capisce perché questo smetta di diventare ovvio quando parliamo di scuola. Perché, si dirà, in quei casi pago e pretendo di avere dei risultati. E il punto, ovviamente, è non solo che la scuola, in effetti, si paga, ma che in questo caso manca completamente l’idea di quale risultato dovremmo pretendere. E certo questo non può lasciarsi decidere alla soddisfazione del “cliente”[2].

Il MIUR è invece un luogo dominato da due ideologie sinergiche: la riduzione del sapere e della sua trasmissione a esigenze di mercato[3], e la chiacchiera psicopedagogica[4] che nei corsi di “formazione” inflitti ai docenti predica un’astratta idea di conoscenza orizzontale e piacevole. L’effetto complessivo è la progressiva quantificazione dei saperi e dei metodi di insegnamento, la subordinazione del corpo docente a una struttura dirigistico-aziendale, l’entrata dei privati nella scuola, la burocratizzazione della didattica, il suo svuotamento (l’erosione dei contenuti e l’alleggerimento del lavoro richiesto agli studenti) in direzione di una pseudo-democratizzazione che punta alla squalificazione della scuola di massa. Già si intravedono i sintomi di un ritorno a posizioni apertamente classiste (l’alternanza scuola-lavoro/PCTO come regressione storica rispetto a un tempo-scuola che, quando era appannaggio delle élites, si pretendeva estraneo a ogni esigenza pratico-lavorativa[5]). L’idea del liceo di 4 anni da diverso tempo in “sperimentazione” è perfettamente in linea con questa ideologia: velocizzare, rendere il sapere sempre più atomizzato e superficiale, accelerare l’ingresso nel mondo del lavoro.

È un dato di fatto che si va affermando un’idea di scuola in cui “studio” e “impegno” sono messi all’ultimo posto come residui del passato, in cui il ruolo e la professionalità dei docenti vengono progressivamente dimensionati, espropriati dal doppio meccanismo perverso che esalta invece i soggetti che dall’alto e dal basso ne dissolvono ogni spazio di libertà e autonomia: il potere verticistico dei manager/burocrati – l’aziendalismo liberista che ha raggiunto l’acme con la legge 107 che dotava il Dirigente di poteri discrezionali nell’assunzione omologhi a quelli del rapporto privatistico[6] –, e gli studenti – che l’ideologia psicopedagogica vuole sempre più sottrarre a ogni forma di obbligo e valutazione da parte di un esterno (la cui “esperienza”, non misurabile oggettivamente, conta ovviamente zero), investendoli progressivamente della “responsabilità” della propria formazione mano a mano che il lavoro in classe viene reso più difficile, evanescente ed erratico. La conoscenza si diluisce nel saper gestire informazioni e acquisire fantomatiche “competenze”: per la mentalità burocratico-amministrativa in preda all’orgia di quantificazione e verificabilità è del tutto inaccettabile l’idea che l’apprendimento possa essere un processo lungo e non lineare, in cui perfino lo scacco può avere una funzione positiva[7].

La scuola e la fatica del concetto

Ora, è possibile riformulare teoreticamente i concetti di “studio” e “impegno” per sottrarli a quella patina passatista e tradizionalista che grava su di essi? Esiste, come pensava Hegel, qualcosa come il “lavoro dello spirito”[8]? Sì, sono convinto che questo “lavoro” esista e consista proprio nella fatica che facciamo per venire a capo di qualcosa di concettualmente complesso, sia nell’assimilazione di una nozione già elaborata da altri che nel tentativo di risolvere un problema per conto nostro. Questa fatica – cioè questo dispendio di tempo ed energia necessario a tenere ferme delle nozioni astratte e alta la concentrazione – è ciò che permette allo spirito di raffinarsi e divenire autonomo[9]. E si tratta di una fatica non solo intellettuale ma anche fisica, poiché richiede che tutto l’organismo sia teso e coadiuvi la mente nell’espletamento del compito che si trova innanzi. Questo ci dice due cose essenziali sulla scuola: 1) che la scolarizzazione, lungi dall’essere un orpello ottocentesco e autoritario, fa parte dell’essenza stessa del processo di crescita intellettuale e culturale, poiché non è possibile l’autodisciplina della mente laddove non esista l’autodisciplina del corpo[10]; 2) che lo studio è stato, è e sempre sarà “fatica”, poiché la crescita degli strumenti tecnologici può sì “alleggerire” il compito della mente, spostando la fatica da compiti divenuti superflui e obsoleti verso altri, ma non può mai annullarla del tutto. L’automazione completa è un obiettivo progressivo per tutti i processi lavorativi, tranne che per la sfera del pensiero: poiché l’integrale sostituzione della fatica del concetto coinciderebbe con l’abolizione stessa del pensiero[11].

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[1] Per quanto si possa non concordare con le analisi di Ricolfi e Mastrocola, ciò che essi chiamano “la lunga marcia dell’abbassamento” è un fenomeno difficilmente negabile e oggettivamente preoccupante. P. Mastrocola e L. Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, Milano 2021.

[2]  Cfr. A. Dal Lago, Contro la società pedagogica, in “Aut Aut”, 358, aprile-giugno 2013. Dal Lago collega l’idea dello studente “cliente” alla Bozza Martinotti sulla riforma dell’insegnamento universitario del 1997. Ma il discorso può essere ovviamente allargato e andrebbe collegato, credo, al concetto di “scuola dei consumatori” proposto in L. Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Feltrinelli, Milano 1998.

[3] P. Bernocchi, Il lavoro mentale dipendente e la merce-istruzione, in “Scuola-azienda e istruzione-merce”, Cesp-COBAS, Roma 2000.

[4] G. Monello, La Fuffoscuola. Lessico fuori dai denti di un insegnante a fine carriera, Scepsi & Mattana Editori, Cagliari 2019.

[5] A. Barbero, intervento al Festival Internazionale della Storia a cura dell’Associazione Culturale èStoria, 28 maggio 2017.

[6] M. Baldacci, I punti critici del documento La Buona Scuola, in M. Baldacci, Beniamino Brocca, Franco Frabboni e Arduino Salatin (a cura di), La Buona Scuola. Sguardi critici dal documento alla legge, Franco Angeli, Milano 2015, pp. 32 e sgg.

[7] Non si tratta solo di valutare l’importanza della “frustrazione strutturante” (F. Nanetti, Il cambiamento intenzionale. Psicopedagogia del linguaggio, dei processi cognitivi e della comunicazione, Pendragon, Bologna, p. 14) o della “capacità negativa” (P. De Sario, L’insegnante facilitatore, metodi e prospettive. Il modello INFA, in “Nuova Secondaria, 2015, ora su https://www.scuolafacilitatori.it/, p. 4). L’idea della funzione produttiva del negativo nel processo di apprendimento dovrebbe essere sottratta a una valutazione puramente psicologica o formale poiché, come diremo, essa vive dell’intreccio tra soggetto e oggetto, va cioè valutata in relazione al contenuto di ciò che si suppone essere “trasmesso” e che non esiste come un semplice “dato”, ma è generato o ri-generato nell’atto stesso dell’insegnamento.

[8] Cfr. M. Berger, Selbstbewusstsein und Selbstbestimmung bei Hegel. Zum Wechselverhältnis von Theorie und Praxis, De Gruyter, 2012, p. 18.

[9] Sui paradossi di tale autonomia nel concetto moderno di lavoro cfr. M. Cacciari, Il lavoro dello spirito. Saggio su Weber, Adelphi, Milano 2020.

[10] Ovviamente, la scolarizzazione, pur favorendo in questo modo la mobilità sociale, non implica di per sé effetti automaticamente positivi per quanto concerne i rapporti tra le classi. Cfr. F. Parziale, Eretici e respinti. Classi sociali e istruzione superiore in Italia, Franco Angeli, Milano 2016, p. 198.

[11] T. W. Adorno, Annotazioni sul pensiero filosofico, in Id., Parole chiave. Modelli critici, trad. it. di M. Agrati, SugarCo, Milano 1974, pp. 9-20.

La guerra di Schrödinger. Manuale del perfetto interventista

Riassumendo, per essere amici della libertà e dei diritti e non servi di Putin occorre affermare quanto segue:

1) Ridurre i rapporti tra Stati e organismi sovrastatali a bisticci da asilo nido in cui sei “amico” di uno, oppure dell’altro. I rapporti diplomatici che obbediscono a motivi economici, culturali, energetici, strategici vanno ridotti alla decisione se mandare un bigliettino alla Russia: “ti vuoi mettere con me? [Sì] [No]”.

2) D’altronde anche l’invasione va ridotta al cazzotto di Will Smith, ogni altra domanda sul contesto è opera del demonio. Cancellare ogni evento passato e ogni conflitto in altri luoghi del pianeta come cinico “diversivo”. Cancellare come inopportuna anche l’espressione “doppio standard” morale.

3) Bersi tutta, ma proprio tutta la propaganda NATO e ucraina e considerare ogni notizia che la smentisce roba da gruppacci telegram manovrati dai russi. Rilanciare tutte le notizie di stermini commesse dai russi e dimenticarsi di postare le rettifiche. Dimenticarsi della possibilità di bombardamenti a tappeto (d’altronde quella è roba da americani) e urlare scomposti di fronte all’espressione “guerra a bassa intensità”.

4) Pensare che Putin sia pazzo e quello che fa non ha nessuna logica oppure se ne ha una è perché agisce come un bambino dell’asilo. Variante soap opera/pascaliana: è malato cronico e agisce solo perché obnubilato dai farmaci o dalla morte incombente.

5) Pensare che Putin abbia un piano che va dall’occupazione militare dell’Ucraina alla conquista di uno sbocco sull’Atlantico. Se ci fanno notare che è assurdo proporre la spiegazione della follia al punto 4), funziona sempre.

6) Sostenere che l’esercito russo è così forte da poter sconfiggere gli ucraini e conquistare l’Europa. Quindi necessità di armarsi e armare l’Ucraina. Sostenere al tempo stesso che come esercito fa cagare, è governato da idioti e sta perdendo. È il famoso esercito di Schrödinger: è fortissimo e una chiavica al tempo stesso.

7) Sostenere che si tratta di una lotta per la democrazia contro l’autoritarismo. Ignorare la statura democratica di paesi come Polonia e Ungheria (che respingono i rifugiati non bianchi) e tacere dei nazisti ucraini. Qui bisogna essere decisi: se si dimostra che ci sono e hanno avuto piena agibilità politica nella repressione delle sinistre bisogna minimizzarne il ruolo (adesso “tutti” gli ucraini combattono uniti) o la cattiveria (alla fine sono nazisti sì ma buoni padri di famiglia).

8 ) A quelli che pensano che la democrazia occidentale abbia numerose pecche, oltre che responsabilità politiche e si sia macchiata di crimini che non andrebbero dimenticati, augurare di vivere nella dittatura putiniana. Secondo la logica binaria chiarita al punto (1) se non sei “amico” di Draghi sei automaticamente “amico” di Putin. UE , NATO e USA stanno alla democrazia come il socialismo reale al socialismo, se non ti sta bene vai a vivere dove i giornalisti vengono uccisi. O così o Pomì.

9) Non nominare mai Assange.

10) Usare alternativamente questi argomenti anche se contraddittori. Considerare la logica uno strumento della dittatura russa e godersi con soddisfazione e orgoglio democratico l’economia di guerra che viene.

Chi pensa “concretamente”? Su guerra e pacifismo

C’è un saggetto di Hegel intitolato “chi pensa in modo astratto?” che mostra come chi si riempie la bocca di “concreto” sia quello veramente “astratto”, in senso deteriore. Mi torna spesso alla mente questi giorni di guerra in cui da più parti ai pacifisti viene chiesto di essere “concreti”.

Ci sono due cose che insegno i primi giorni di lezione in filosofia e storia. La prima è di non usare mai la parola “concreto”. La seconda è di non rappresentarsi i conflitti storici come bisticci da asilo. Questi giorni mi confermano che tale approccio è vitale.

La parola “concreto” viene bandita dalle mie aule per almeno un paio di anni. Chi conosce gli studenti sa che quando imparano i rudimenti della filosofia quella parola risucchia come un buco nero qualsiasi rapporto concettuale e impedisce loro di acquisire una terminologia precisa: empirico, materiale, corporeo, sensibile, fenomenico, oggettuale, oggettivo, esistenziale, personale, individuale, singolare ecc. Spesso dovrebbero usare uno di questi termini e invece quel “concreto” sulle loro labbra blocca l’accesso ad un termine migliore che li introduce ad una serie di rapporti più ricca e articolata.

In secondo luogo, l’uso rozzo del termine concreto impedisce un’adeguata comprensione del termine opposto: “astratto” finisce per significare qualcosa di negativo, cioè di fantastico, indeterminato e addirittura utopistico. Ma la capacità di astrazione ha come oggetto esattamente il contrario. Tra l’altro comprendere il significato corretto dell’astrazione è una spia del fatto che si sta sviluppando la capacità corrispondente.

Consiglio sempre di leggere “Segmenti e bastoncini” di Lucio Russo che denuncia il declino del pensiero astratto nella scuola. L’astrazione è la potenza stessa del pensiero che si emancipa dall’immediato, dal dato singolare, dall’impressione casuale e costruisce relazioni ideali di senso. Senza “astrazione” non ci sarebbe sapere teorico in nessuna disciplina, né scientifica né umanistica.

Agli stessi poveri studenti chiedo anche di non parlare mai dei rapporti di potere alludendo a dinamiche personali, attraverso un immaginario che riduce tutto alle scaramucce tra bambini viziati. In modo foucaultiano pretendo che immaginino il potere non come una “cosa” ma come una “relazione”, anzi un insieme di relazioni conflittuali, fatte non solo di “forza” ma anche di parole, gesti, simboli, astuzia, alleanze, saperi.

Perché anche qui, chi conosce gli adolescenti sa che rischiano facilmente di ridurre ogni evento storico alla pura e semplice “avidità” o, peggio, ad un’indeterminata “voglia di potere”. E allora ecco che Alessandro Magno, Cesare, Costantino, Robespierre, Napoleone, Mussolini e Stalin finiscono per sembrare la stessa persona che agisce in circostanze diverse. Alla fine non volevano tutti “il potere”? E, alla fine, chi è che non lo vuole?

E qui il cerchio si chiude. Sembrano tutti la stessa persona che vuole la stessa cosa perché si sta facendo una “cattiva astrazione”. Invece di essere precisi e determinati si è vaghi e generici. Ma quanto appare “concreta” quella spiegazione alla mente adolescente rispetto a quella che invoca simboli, valori, ideali, che determina contesti, situa conflitti, possibilità e convenienze non immediate, materiali, evoca processi storici e sociali più ampi?

In nessun caso, poi, come nella spiegazione del fascismo e del nazismo questo lavoro è necessario e difficile. Perché qui, più che altrove, l’arbitro soggettivo e, nel caso di Hitler, il profilo psicologico entrano prepotentemente in scena. E dunque proprio qui occorre saper bilanciare “spiegazioni” totalizzanti e vuote che evocano la “brama di potere”, la “forza bruta” e, addirittura, la “follia”, con contestualizzazioni che diano a questi elementi, pur presenti, un significato minimamente specifico.

Questo dovrebbe chiarire perché le frequenti accuse che ho letto ai pacifisti di non essere “concreti” perché al Cremlino c’è un “pazzo” che per “brama di potere” vuole annettersi mezza Europa mi paiono poco significative. Sono discorsi da bambini che vogliono fare gli adulti.

“Concreto” qui significa tre cose, tutte e tre sbagliate. Da un lato, chiedersi: “cosa dovremmo fare per l’Ucraina ORA?”, isolando dal contesto causale ciò che accade, cioè operando una cattiva astrazione. Dall’altro, chiedersi: “cosa dovremmo fare per l’UCRAINA ora?”, operando una seconda cattiva astrazione, perché l’oggetto dell’azione in questo caso sono, confusamente, i “concreti” individui bombardati, ma anche lo Stato sovrano che è sì una realtà concreta ma che sta dentro una serie di relazioni più complesse e quindi astratte (non solo diplomatiche, economiche e militari ma anche storiche: popolazione russofona ecc.).

Last but not least: “cosa dovremmo FARE per l’Ucraina ora?” è l’astrazione più cattiva di tutte. Qui “fare” viene immaginato subito nei termini dell’azione fisica, quasi che gli stati agissero come degli individui. Le analogie col quotidiano si sprecano: “se uno da un pugno ad un altro tu che fai?”. Ovviamente, di fronte alle immagini dei profughi e delle bombe e alla reale invasione da parte dei russi, chi non vorrebbe “agire” subito? Ma per fare cosa?

L’unica risposta sensata è porre fine alla guerra che è poi quello che “concretamente” vogliono i pacifisti. Ma i guerrafondai hanno un’idea più “concreta”. Per porre “concretamente” fine alla guerra bisogna fare la guerra. Ovviamente non lo dicono ma perché sono astratti, nel senso deteriore del temine. Vediamo perché.

Bisogna “mandare le armi”, dicono. Bene, non entriamo nel merito di cosa significa questo per la democrazia degli stati che lo fanno anche se per noi pacifisti (e socialisti) è fondamentale. Facciamo finta – cattiva astrazione – che per noi “inviare armi” sia indifferente economicamente, politicamente, socialmente e culturalmente. Che tipo di armi? Quante? A che scopo?

Esiste una narrazione secondo cui l’esercito russo non può sconfiggere l’Ucraina e noi potremmo senza impegnarci troppo aiutarla a “resistere”. È un assunto indimostrabile e sinceramente contro-intuitivo. Ma anche qui, facciamo finta (cattiva astrazione), che i russi siano in difficoltà. Chi agisce “concretamente” dovrebbe come minimo misurare l’entità della sua “azione”. Fino a che punto siamo disposti ad intervenire nel conflitto? Diamo carta bianca ai governi? D’altronde, se l’idea “concreta” è mandare armi per salvare gli individui “concreti” non posiamo fare altro. Tutto il resto lo abbiamo escluso perché “irrilevante”.

I nostri amici “concreti” vogliono mandare le armi ma non ci dicono quante e fino a che punto dovremmo inviarle. Ovviamente non vorrebbero la Terza Guerra Mondiale ma non sembrano altrettanto interessati ad evitarla. L’escalation si chiama così perché ci si provoca reciprocamente. L’unico modo per evitarla è non provocare. Ma questo, per gli amici “concreti”, è un ragionamento astratto e vigliacco. Quindi andiamo alla guerra nucleare, ma con juicio.

Noi pacifisti e socialisti siamo vigliacchi, ce lo ripetono dal 1914. Ma il fatto è che non siamo abituati a considerare la storia guardandola dal punto di vista dei capi di stato e delle loro “personalità”, dei popoli e dei loro “caratteri nazionali”. Siamo materialisti e abbiamo il pallino di cercare di capire come funzionano le società industriali e cosa muove i loro rapporti. Ed ecco che improvvisamente i nostri discorsi diventano non abbastanza nobili, sono rozzi e volgari, forse troppo angustamente “concreti”…

Gli amici guerrafondai, invece, si nobilitano tutti per il loro agitarsi, anzi, la loro superiorità morale sta tutta nel non farsi troppe domande inutili e partire in quarta ad “agire”. D’altronde, anche solo invocare un minimo di comprensione del contesto in cui ci troviamo, per capire cosa stiamo facendo e cosa dovremmo e potremmo fare, diventa eo ipso una “giustificazione” di Putin e dell’invasione.

Perché, in effetti, anche questo viene interdetto. La spiegazione “concreta” che ci viene offerta è che Putin ha solo “brama di potere” o che “è pazzo”. D’altronde, non è forse “come Hitler”? Con il che, appare evidente, ogni ipotesi non dico di negoziato ma anche di speranza di mantenere il conflitto ad un livello locale e temporaneo è negata a priori. Come si fa a negoziare con un pazzo o uno che ci si immagina abbia in testa solo la conquista di tre continenti a scelta?

“Negoziare” poi viene immaginata come un’entità vaga e indefinita, una cosa da anime belle che non sanno “agire concretamente”. Perché la storia, si sa, viaggia sulle ali dei proiettili, gesti e parole non contano niente. Anche se leader che delirano pubblicamente di “libertà europea” hanno un effetto molto più grande (e pericoloso) rispetto alle armi che inviano.

Certo, è vero, negoziare in modo efficace sarebbe possibile solo se la NATO e l’UE fossero disposti a cambiare la propria prospettiva strategica in termini economici, politici e militari. Perché esattamente questo è il motivo per cui negli ultimi vent’anni non si è arrivati ad un sistema difensivo europeo diverso e a rapporti diversi con la Russia. E questo, lo riconosciamo, è qualcosa che difficilmente possiamo immaginare dagli attuali leader dell’Occidente.

Ma questo non è un buon motivo per non pretendere, come facciamo noi pacifisti socialisti, che si agisca nell’unico modo che potrebbe garantire la pace. Ovvero in modo conflittuale rispetto agli interessi delle classi proprietarie e delle istituzioni da loro abusivamente occupate.

Perché in soldoni questo pretendono da noi i guerrafondai: non solo che sposiamo il loro punto di vista infondato e assassino ma anche che smettiamo di chiedere giustizia, che ci adeguiamo allo status quo. “Non potete pretendere altro”. Ma questa non è “concretezza”: è una profezia che si auto-avvera. Ciò che, in altre stagioni, avremmo chiamato pura e semplice ideologia.

peace #NATO #stopthewar #russia #ue #nowar

Antispecismo politico

Scritti sulla liberazione animale

Gli animali non-umani potranno trovare la pace e la giustizia solo se saremo in grado di porre fine allo sfruttamento in ogni sua forma. Un’aspra critica della società antropocentrica in cui si evidenzia il rapporto tra sfruttamento della natura e sfruttamento umano, contestando il tentativo di combattere l’uno senza combattere l’altro. L’antispecismo appare in queste pagine come un coerente progetto di emancipazione che potrà riuscire nel suo intento solo se saprà assumere come proprio modello una società orizzontale, solidale e partecipata.

The fake Günther Anders of conspiracy theorists

A few months ago, a text attributed to poor Günther Anders started circulating on the internet. On several sites, it is presented as a quote from The Obsolescence of Man, complete with “accurate” information (taken from Wikipedia…) about the “Jewish philosopher” who predicted today’s great world conspiracy as early as 1956. This quote is completely made up.

This text gets posted and reposted on sites, pages and groups of conspiracy theorists, no vax and the like. From what I managed to reconstruct, the original, in French, should be by Serge Carfantan, a spiritualist and “skeptical” philosopher who wrote a text “inspired” by Günther Anders:

Not surprisingly, Carfantan’s text is sometimes also linked with Huxley – and it certainly remembers much more closely the dystopia of Brave New World than the reflections of The Obsolescence of Man.

Here is the phony quote:

In order to stifle any revolt in advance, one must not use violence. Methods like those used by Hitler are outdated. You need only develop such powerful collective conditioning that the very idea of revolt will not even cross people’s minds.

Ideally, individuals should be conditioned by limiting their innate biological abilities from birth. Then, we would continue the conditioning process by drastically reducing education in order to bring it back to a form of integration into the world of work. An uneducated individual has only a limited horizon of thought, and the more his thoughts are confined to mediocre concerns, the less he can rebel. Access to knowledge must be made increasingly difficult and elitist. The gulf between people and science must be widened. All subversive content must be removed from information intended for the general public.

Above all, there should be no philosophy. Here again, we must use persuasion and not direct violence: we will massively broadcast entertainment via television that always extols the virtues of the emotional and instinctive. We will fill people’s minds with what is futile and fun. It is good to prevent the mind from thinking through incessant music and chatter. Sexuality will be placed at the forefront of human interests. As a social tranquilliser, there is nothing better.

In general, we will make sure to banish seriousness from life, to deride anything that is highly valued and to constantly champion frivolity: so that the euphoria of advertising becomes the standard of human happiness and the model for freedom. Conditioning alone will thus produce such integration that the only fear – which must be maintained – will be that of being excluded from the system and therefore no longer able to access the conditions necessary for happiness.

The mass man produced in this way must be treated as what he is: a calf, and he must be kept a close eye on, as a herd should be. Anything that allays his lucidity is good socially, and anything that could awaken it must be ridiculed, stifled and fought. Any doctrine questioning the system must first be designated as subversive and terrorist, and those who support it must then be treated as such.

And this is the original Anders quote that “inspired” the manipulators:

Massenregie im Stile Hitlers erübrigt sich: Will man den Menschen zu einem Niemand machen (sogar stolz darauf, ein Niemand zu sein), dann braucht man ihn nicht mehr in Massenfluten zu ertränken; nicht mehr in einen, aus Masse massiv hergestellten, Bau einzubetonieren. Keine Entprägung, keine Entmachtung des Menschen als Menschen ist erfolgreicher als diejenige, die die Freiheit der Persönlichkeit und das Recht der Individualität scheinbar wahrt. Findet die Prozedur des „conditioning” bei jedermann gesondert statt: im Gehäuse des Einzelnen, in der Einsamkeit, in den Millionen Einsamkeiten, dann gelingt sie noch einmal so gut. Da die Behandlung sich als „fun” gibt; da sie dem Opfer nicht verrät, daß sie ihm Opfer abfordert; da sie ihm den Wahn seiner Privatheit, mindestens seines Privatraums, beläßt, bleibt sie vollkommen diskret.

Günther Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, Beck, München 1961, p. 104

Here’s the English translation:

The stage-managing of masses that Hitler specialized in has become superfluous: if one wants to transform a man into a nobody (and even make him proud to be a nobody), it is no longer necessary to drown him in a mass, or to bury him in a cement construction mass-produced by masses. No depersonalization, no loss of the ability to be a man is more effective than the one that apparently preserves the freedom of the personality and the rights of the individual. If the procedure of conditioning takes place in a special way in the home of every person—in the individual home, in isolation, in millions of isolated units—the result will be perfect. The treatment is absolutely discreet, since it is presented as fun, the victim is not told that he must make any sacrifices and he is left with the illusion of his privacy or, at least, of his private space.

Extrapolated from the context, the text seems similar but Carfantan makes Anders say exactly the opposite of what he intended to say. The Obsolescence of Man is based on the theory according to which the “totalitarian” character of today’s society derives exclusively from technology. There is no conspiracy, no elite, no secret plan aimed at enslaving humanity: technology as such produces the commodification and reification of the subject. As a matter of fact, Anders would have said that the more one uses technology for his/her ends, the more one gets used by technology for its own ends. Consequently, those who believe to be “free” because they’re denouncing some “dictatorship” via Facebook, Youtube and Whatsapp are the first ones Anders would have labelled as stupid “masses”, unable to think and act freely. 🤦‍♂️

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