di Marco Maurizi
pubblicato originariamente in Animal Studies – Rivista italiana di antispecismo, n. 5 (2013)
Compagni che sbagliano
Il paragone tra la Shoah e lo sterminio degli animali non umani è un’arma a doppio taglio e viene troppo spesso maneggiata con leggerezza. Esso assolve due compiti diversi: da un lato dovrebbe servire a scioccare l’opinione pubblica e farla riflettere sull’orrore che ogni giorno la società industriale avanzata compie nei confronti della natura non-umana; dall’altro dovrebbe mostrare una somiglianza strutturale che permetta di comprendere i due fenomeni (lo sterminio degli ebrei e degli animali) come in qualche modo analoghi. Da un lato, dunque, dovrebbe “svegliare” le coscienze, colpendole con l’effetto choc di un paragone che turba l’animo; dall’altro, dovrebbe “informarle”, attivare un processo conoscitivo che mostra dietro l’apparente diversità una comune essenza. Non è affatto detto che queste due cose possano andare di pari passo. Penso anzi che siano in contraddizione tra loro, per motivi formali e sostanziali.
1) Formali: perché la “comprensione” non può coincidere con il subire passivamente uno choc emotivo-visivo. La comprensione è infatti un atto che, al limite, può seguire uno choc cognitivo ma non può identificarsi con esso. Ammesso che la Shoah e i macelli industriali abbiano una comune natura, quest’ultima potrebbe anche essere illuminata da un’immagine o da una frase choc («nei confronti degli animali tutti gli umani sono nazisti»), ma poi dovrebbe comunque essere chiarita concettualmente attraverso un processo di pensiero che mostri la sostanziale fondatezza di quel paragone.
2) E qui giungiamo ai motivi sostanziali per cui il paragone è inesatto: se davvero Auschwitz e i macelli fossero la stessa cosa, come spesso si sostiene, o, in forma più blanda, avessero la stessa natura, allora il primo termine del paragone dovrebbe servire a spiegare il secondo e viceversa. Il paragone viene invece sempre evocato in modo unidirezionale: è Auschwitz che viene usato per spiegare i macelli e mai il contrario. Perché? Se si trattasse veramente di uno stesso fenomeno che si manifesta in due aspetti diversi (semplicemente “sostituendo” le vittime umane con le non-umane) dovremmo dire che “Auschwitz è stato un macello” e i nazisti dei “macellai” (ovviamente in senso non metaforico). Perché di fronte a queste affermazioni restiamo interdetti e ci sembra che qualcosa non torni?
Il saggio di Susann Witt-Stahl “Auschwitz non sta sul vostro piatto” spiega molto bene perché e nella seconda parte di questo articolo cercherò di sviluppare gli spunti lì contenuti. Ma prima è necessario affrontare le critiche che questo importante saggio ha suscitato in particolar modo da parte del collettivo Rinascita animalista.
La polemica di Rinascita animalista si incentra prevalentemente sul fatto che la Witt-Stahl abbia criticato la campagna pubblicitaria della PeTA piuttosto che il libro di Patterson Eterna Treblinka. Ma resta tutto da dimostrare che quest’ultimo offra qualcosa di più profondo della campagna PeTA, che riesca, insomma, veramente a dimostrare la continuità storica e logica tra l’olocausto e lo sterminio degli animali.
In generale mi sembra che il problema di questa risposta è che la critica al testo di Susann Witt-Stahl – se a tratti può apparire giustificata – non salvi affatto Patterson, perché sul nesso causale e sostanziale tra macellazione industriale e Auschwitz non c’è alcuna chiarezza. Al di là delle immagini orrorifiche – in cui, come dice giustamente la Witt-Stahl, la “visione” sostituisce la “comprensione” – rimangono sempre e soltanto certi labili e avventurosi paralleli, come il fatto che uno abbia lavorato in un macello animale prima di mettersi a “macellare” gli ebrei o che la logica da “catena di montaggio” sia stata inventata prima per i mattatoi e poi applicata al resto, dalla fabbrica fordista a Treblinka. Io credo che occorra fare piazza pulita del quadro “giornalistico” piuttosto che “storico” tracciato da Patterson (che serve solo a fare sensazione stimolando l’emotività) e ricostruire il paragone – se davvero lo si vuol fare – sulla base di assunti filosofici e storici fondati, che facciano appello alla comprensione razionale.
La specificità dell’olocausto non sta solo nell’aspetto formale, burocratico-amministrativo della morte, ma nel concetto stesso di sterminio, di annullamento dell’altro. Si dirà, “ma questo è quello che facciamo con gli animali nei macelli!” Nemmeno per sogno. Come nota giustamente Antonio Volpe, che pure sostiene la legittimità del Paragone, «nessun nazista si è mai sognato di far riprodurre ebrei all’infinito per poterli, all’infinito, sterminare». La differenza di struttura è lampante, è addirittura assurdo doverlo ribadire. Come si vede, il problema è che nell’Olocausto l’alterità (vera o presunta) della vittima, quella della “razza ebraica”, deve essere eliminata per far sì che l’identità (vera o presunta) del carnefice, l’ “ariano”, possa esistere ed affermarsi. Equiparare i due fenomeni sulla base della modalità industriale di amministrazione della morte è del tutto superficiale e si fa sfuggire l’essenziale. La Shoah non è riducibile in modo formale ed esteriore all’omicidio industrializzato di massa, ha anche un contenuto ben determinato. È su questo contenuto, sul rapporto non casuale tra questo contenuto e la forma della meccanizzazione assassina, che si concentrano Adorno e Horkheimer (correttamente citati a questo proposito da Susann Witt-Stahl). Non credo che l’ideologia nazista sia così poco rilevante per spiegare l’Olocausto come pretende Rinascita Animalista, soprattutto perché non credo che l’ideologia nazista sia un monstrum nel cammino della modernità.
È proprio il suo aspetto paradossale di ideologia reazionaria iscritta nella logica del progresso ad essere rilevante, a costituire l’arcano, l’enigma che occorre risolvere (e che il Paragone lungi dal risolvere confonde ancora di più: il nazismo diventa solo un modo un po’ più aggressivo e violento della “normale condotta umana”: così si esprime Patterson). Ciò che è davvero eclatante e irriducibile nella barbarie nazista e nel suo esito criminale è, come è stato fatto spesso notare, che esso sia accaduto nel cuore dell’Europa, da parte di uno dei popoli più civilizzati, in una terra di “poeti e scienziati”. Non basta il discorso sulla “freddezza” e sulla “banalità del male” a spiegare questo… Se si tralascia il contenuto di Auschwitz allora è ovvio che si possono fare paragoni con tutto: con il genocidio dei nativi americani, con i Gulag, Hiroshima etc. E allora ovviamente anche con i macelli.
L’altro aspetto rilevante, che sorprende veder sottovalutare da una voce marxista come quella di Rinascita Animalista, è che i macelli, come scrive giustamente la Witt-Stahl, servono ad estrarre plusvalore non a sterminare gli animali: anche in questo caso la differenza è assolutamente evidente e sta nelle cose stesse, non si può ignorare limitandosi ad analogie che restano di “superficie”. Abbiamo già visto che non basta dire che Auschwitz e i macelli sono meccanismi di annullamento dell’altro, perché il particolare rapporto tra l’identità del carnefice e l’alterità della vittima nel caso dell’Olocausto impone di non abbandonarsi a facili equiparazioni. Ciò detto, dissento profondamente anche da una teoria antispecista metafisica (cioè astorica) come quella proposta da Rinascita Animalista alla fine della risposta: fa una bella differenza annullare l’altro per mangiarselo, per sacrificarlo a Kali o per spazzarlo via dalla Storia! Quando Rinascita Animalista sostiene che per l’antispecismo «le relazioni di dominio tra animale umano e animale non umano sono equiparate a quelle tra animale umano e animale umano», sta nascondendo tutte le molteplici differenze che nelle varie società storiche hanno caratterizzato quelle relazioni. Tutto si riduce all’Uomo e all’Animale, astrazioni prive di qualsiasi presa sulla realtà storica[1].
Un’altra obiezione che mi sentirei di fare è la seguente: è vero che viviamo in un mondo dominato dalla fredda e omicida logica calcolante che ha reso possibile Auschwitz, Hiroshima etc. e che trionfa anche nei macelli industriali. Però rimane comunque errato voler isolare l’Olocausto come parte per il tutto di questo modus essendi cinico e barbaro che domina sul pianeta dal secolo scorso. Di questa fredda e cinica capacità distruttiva fa parte buona parte del mondo tecnologico che ci circonda (dal DDT alle bombe usate in Iraq) e quando il collettivo di Rinascita “allarga” il discorso per far vedere come questa logica distruttiva non sia un epifenomeno ma qualcosa di sostanziale nella storia della civiltà e in particolare del capitalismo, allora risulta evidente quale sia la contraddizione in cui si incaglia: più si cerca di mostrare che tale violenza è un tratto diffuso e caratteristico dell’umanità, meno l’Olocausto appare nella sua singolarità mostruosa, più appare ingiustificato il tentativo di stabilire un paragone “sostanziale” tra Auschwitz e i macelli. Alla fine di tutto il discorso rimane davvero solo un altro esempio del metodo-PeTA: usare l’orrore per scandalizzare, giustificato solo da un desiderio sensazionalistico e, dunque, pubblicitario. Infatti il collettivo parla di usare il Paragone come “arma”, quindi siamo di nuovo di fronte a una strumentalizzazione! Dove sta la differenza con la PeTA?
L’«olocausto animale» appare come una deformazione linguistica, un paradosso dell’immaginario: non solo e non tanto perché “profana” l’orrore indicibile di Auschwitz ma perché lo svuota di significato e lo riduce a pura immagine. In questo modo non aiuta nemmeno a comprendere l’orrore indicibile del mattatoio industriale. Si vorrebbe infatti “usare” l’immagine della Shoah per far comprendere la miseria del macello ma la Shoah stessa rimane un fatto incompreso, un album di foto mute, strappato dal suo contesto, dalle sue premesse logiche e storiche, così come dalle sue conseguenze politiche. E così il Paragone lungi dal chiarire i due termini messi in rapporto, li lascia galleggiare nel vuoto di una generica denuncia della “cattiveria” dell’umanità. È come un ponte sospeso tra due nulla.
Patterson ha contribuito a diffondere questo paradosso e a sottrarlo ad un’analisi seria dei rapporti di dominio. Finché ci si baserà su analogie formali e non sostanziali, finché ci si limiterà a diffondere immagini e non concetti, finché si lascerà sfogo al desiderio di scioccare invece che comprendere, non si riuscirà ad elaborare una vera teoria politica della liberazione animale. La chiusura della risposta del Collettivo è, da questo punto di vista, esemplare nella sua perentorietà. Gli amici di Rinascita Animalista denunciano la PeTA perché da un lato difende il Paragone Auschwitz-Macello e dall’altro accetta di trattare una migliore condizione per gli animali negli allevamenti. Ma come è possibile trattare con aguzzini hitleriani se li si ritiene davvero tali? Questa osservazione critica, già mossa dalla Witt-Stahl per mostrare l’assurdità del Paragone e le conseguenze paradossali cui esso porta se dovesse essere preso “alla lettera”, viene invece accolta con approvazione dal Collettivo. E così, con una perentoria richiesta etica che scava un solco profondo tra gli umani e gli animali, gli amici di Rinascita Animalista sono disposti a portare alle estreme conseguenze il Paragone e a gridare: non si “tratta” con i nazisti! Ma in questo caso dovremmo pensare che il mondo intero sia nazista (a parte, ovviamente, l’esigua minoranza che si è “armata” di quel Paragone). Non ne consegue forse che in tal modo il senso dell’espressione “nazista” perde ogni significato? Diventa il marchio infamante con cui tutta l’umanità, indistintamente, dal bambino che chiede l’elemosina fino al ricco magnate d’industria, viene marchiato a fuoco per puri fini propagandistici. Se c’è un atteggiamento nazistoide, temo, è proprio questo, l’atteggiamento di chi annulla ogni differenza dell’altro e lo riduce ad uno schema di comodo. Nel Paragone tra Auschwitz e i mattatoi si ripete dunque ciò che i carnefici nazisti fecero alle vittime nel pensiero prima ancora che nella prassi: l’umanità intera è ridotta ad esemplare di una generica miseria etica.
È un’esagerazione? Bene, spetta ai nostri avversari dimostrare che questa è “solo” una metafora e non invece un’analogia fondata. Come precauzione, infatti, il Collettivo cerca di smarcarsi dall’accusa di voler identificare l’Olocausto e i macelli, sostenendo che si tratta “solo” di un’analogia: «un ‘Paragone’ è un’analogia, non un omomorfismo in senso stretto» scrivono. Sarebbe interessante avere un chiarimento sulle differenze tra metafora, paragone, analogia e omomorfismo. Perché se si vuole costruire una teoria e un’azione politica conseguente sulla base della parola d’ordine “olocausto” animale, occorre anche sapere dove finisce la fantasia letteraria e inizia la realtà.
Rileggendo Modernità e Olocausto
In questa seconda parte del mio intervento vorrei provare a mostrare alcuni aspetti che potrebbero legare in modo sensato la questione animale e la questione dell’Olocausto. Ciò significa collocare tali fenomeni dentro una cornice storica e teorica più ampia che ne mostri la continuità ma anche la specificità (evitando quindi gli estremi opposti: da un lato, pretendere di identificarli o addirittura “derivare” l’Olocausto dal macello industriale; dall’altro, sancirne la reciproca indifferenza). Solo così, mi pare, si può evitare il pericolo di un appiattimento dei due fenomeni causato da un uso “pubblicitario” e scandalistico del Paragone e la conseguente spoliticizzazione dell’Olocausto denunciata da Susan Witt-Stahl[2].
L’Olocausto e la storia della Civiltà
Per fare questo mi servirò di un testo che costituisce un classico della ricostruzione di ciò che ha reso possibile la Shoah: Modernità e olocausto del sociologo Zygmunt Bauman (Il Mulino, Bologna 2010). Questo testo mette in rapporto Auschwitz e la storia della civiltà, mostrando come non sia possibile derubricare la barbarie nazista a semplice “incidente di percorso” del progresso culturale, tecnico e materiale dell’Occidente. Al tempo stesso, l’Olocausto possiede una propria specificità che non permette nemmeno di equipararlo ad altri fenomeni, pur virulenti, di questa storia.
Il libro di Bauman è importante non solo perché propone una teoria in grado di spiegare la singolarità dell’Olocausto ma anche perché la sua capacità di spiegazione si arresta proprio là dove si intravede il ruolo svolto dall’oppressione animale nei processi che hanno condotto ad Auschwitz. Bauman, in altri termini, mette talvolta in luce la continuità tra oppressione umana ed oppressione animale ma non sembra in grado di trarre le debite conclusioni. Se Bauman avesse posto attenzione a questo nesso e denunciato, assieme al dominio sull’uomo anche il dominio sulla natura, il suo testo sarebbe stato senz’altro teoreticamente più completo. D’altronde, se lo avesse fatto, avrebbe riscritto la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer[3].
La Shoah non è spiegabile in termini di antisemitismo
Per comprendere come sia stato possibile l’Olocausto, Bauman sottolinea che occorre trovare una spiegazione che vada al di là del semplice antisemitismo: infatti, in periodi in cui l’antisemitismo era diffuso a livello popolare (il medioevo cristiano) non si è visto nulla di simile alla Shoah e, d’altro canto, lo sterminio nazista non si è realizzato con il diretto appoggio dell’odio popolare (anzi, tutti i tentativi di fomentare fenomeni di massa in stile pogrom – dai boicottaggi dei negozi ebraici alla Kristallnacht – si sono rivelati fallimentari per ammissione degli stessi gerarchi nazisti). Il genocidio degli ebrei non può essere spiegato in termini di semplice avversione emotiva – come una forma tra le tante di eterofobia – perché la sua caratteristica principale è stata l’amministrazione razionale con cui i nazisti hanno tentato di realizzarlo. Cosa ha fatto sì che si realizzasse questo connubio atroce tra disprezzo per l’ebreo e pianificazione del suo sterminio?
Per rispondere a questa domanda, osserva Bauman, bisogna collocare l’Olocausto non ai margini dalla storia della civiltà (come un suo “errore”, una sua “caduta”) ma dentro, come una sua possibilità latente. Auschwitz è una possibilità iscritta nella struttura stessa della civiltà che si è manifestata solo quando la convergenza di determinate variabili l’ha resa possibile. Così, è vero, come dice Patterson, che i nazisti erano “normali” (nel senso che, tranne alcuni casi, la maggior parte di loro non era tecnicamente “folle”) così come «ogni ‘ingrediente’ dell’Olocausto […] era normale» (p. 26). Per citare Stillman e Pfaff: «Buchenwald appartiene all’Occidente tanto quanto Detroit» (ibid.). Ciò che rese unico l’Olocausto fu la combinazione di tali fattori “normali” in un preciso momento della storia.
Gli elementi della civiltà che hanno reso possibile la Shoah
Semplificando in modo un po’ grossolano si può dire che secondo Bauman la civiltà è caratterizzata da due tendenze fondamentali: la riduzione della violenza diretta e la crescente importanza data alla razionalità nell’agire sociale. Ad esse andrebbe aggiunto il controllo tecnico della natura che in Bauman, come vedremo, è un elemento di questa costellazione che rimane nell’ombra seppure a tratti emerga dal suo stesso discorso.
a. La riduzione della violenza diretta
Cosa significa «riduzione della violenza diretta»? Significa che la civiltà coincide con la riduzione dei rapporti diretti tra i membri della società e la progressiva mediazione di tali rapporti in forme sociali sempre più complesse. Questa istituzionalizzazione del rapporto fisico, potenzialmente violento, non coincide con una limitazione della violenza, bensì con la sua centralizzazione, ovvero concentrazione nelle mani dell’amministrazione. I singoli soggetti vengono progressivamente spogliati della propria capacità offensiva reciproca per essere messi in un rapporto mediato dalla capacità regolativa dello Stato e di altre istituzioni sociali. Da ciò consegue la distanza e la relativa freddezza morale che caratterizza le società altamente complesse: le azioni dei singoli sono infatti mediate dalla totalità sociale e gli effetti dell’agire individuale non hanno più una diretta ripercussione sull’altro. Se in tal modo la distanza che spesso separa l’azione dai suoi effetti ultimi (una distanza fisica, corporea, temporale ma anche psicologica ed emotiva) de-responsabilizza l’agente morale tale de-responsabilizzazione ha un suo fondamento oggettivo.
b. La diffusione della razionalità strumentale
Tutto ciò si associa alla crescente importanza che la “razionalità strumentale” (cioè la capacità tecnica di agire in conformità ad uno scopo seguendo la via più breve ed efficace) assume nella società moderna. La modernità si costituisce come un progetto di società “giardino”, cioè uno spazio in cui si ordinano e organizzano i fenomeni “positivi” e si modificano o estirpano i fenomeni “negativi”. Mentre la società tradizionale, pre-illuministica, è caratterizzata dall’arbitrio dei rapporti tra uomini e tra umani e natura, la società moderna, illuministica, si sforza di raggiungere un’organizzazione di tali rapporti quanto più “perfetta” possibile, disincentivando o eliminando ogni “intoppo”, ogni attrito al perfetto funzionamento della macchina sociale. Nella modernità, “razionale” è tutto ciò che incoraggia questo funzionamento, “irrazionale” ciò che lo intralcia.
L’illuminismo come punto di svolta
Al crocevia di questi processi vediamo cosa accade dentro e fuori la società, ovvero cosa accade agli esseri umani e alla natura. I primi vengono progressivamente spogliati di tutte le caratteristiche accidentali (di razza, genere, nascita, confessione ecc.) che la storia ha cucito loro addosso e ridotti all’essenza di cittadini, atomi umani formalmente uguali e giuridicamente indistinguibili l’uno all’altro. La natura, presa nelle maglie della scienza meccanicistica, diventa a sua volta un oggetto (o un sistema di oggetti) quantificabile e sottomessa così alle leggi del calcolo e della tecnica umani. In tal modo essa viene però incoronata come «una nuova divinità» e la scienza legittimata come «suo unico culto ortodosso» di cui gli «scienziati» divengono «profeti e sacerdoti» (p. 104). Bauman non indaga oltre questa perversa dialettica per cui ciò che è asservito e squalificato dalla società umana diventa anche il principio che domina questa società ed è precisamente questa dinamica che Adorno e Horkheimer hanno indagato nella Dialettica dell’illuminismo.
Ad ogni modo, è questo intreccio di elementi che renderà possibile l’Olocausto e gli conferirà la sua specificità. In che modo?
L’ebreo inconciliabile: vittima designata del progresso.
Anzitutto la selezione della vittima è legata al ruolo che gli ebrei hanno avuto nel processo di modernizzazione dell’Occidente. L’ebreo rappresenta infatti una figura ambigua che difficilmente riesce ad inserirsi sia nell’ordine premoderno che in quello moderno. Nell’ordine medioevale cristiano egli si trovava al di fuori del gruppo sociale ed era visto quasi come un subumano, «il prototipo e il modello principe di ogni anticonformismo, eterodossia, anomalia, aberrazione…dimostrazione dell’irrazionalità minacciosa e inusitata della devianza…Il concetto di ‘ebreo’ recava in sé il messaggio: l’alternativa all’ordine esistente qui ed ora non è un altro ordine, ma il caos e la devastazione» (p. 65). Nell’ordine moderno, al contrario, l’ebreo incarna invece l’essenza dell’universalismo perché in quanto “sradicato” si inserisce perfettamente nei processi di superamento del particolarismo e del localismo e viene così considerato nuovamente un fattore socialmente disgregante (p. 82). A ciò si aggiunga che, proprio per la sua figura extraterritoriale rispetto all’ordine sociale tradizionale, l’ebreo era “protetto” dal principe o dal nobile e spesso usato da questi per la riscossione dei tributi attirandosi l’odio delle classi popolari, mentre nel tentativo di farsi assimilare come cittadino dello stato borghese viene identificato come nemico del potere feudale. L’ebreo finisce così per convogliare sulla propria figura l’odio incrociato degli antagonismi di classe e se la fine della protezione fisica (ghetto) e giuridica (principe) è un presupposto per la progressiva assimilazione, tale assimilazione non sarà mai completa. Si tenterà anzi di trovare per l’ebreo una nuova forma di marchiatura, stavolta non più fondata sulla religione bensì sulla “natura”: i tratti fisici distintivi della “razza” ebraica verranno così enfatizzati e santificati dalla nuova scienza biologica.
La logica burocratica come cifra della modernità
In secondo luogo va compreso in questo contesto le modalità di annientamento della vittima designata. Gli ebrei entrarono nella modernità come figure caratterizzate da questa “illogicità” fondamentale: al tempo stesso arcaici e moderni, particolaristici e universali, fortemente caratterizzati e sfuggenti. Nel momento in cui il nazismo prese il potere, esso tentò di realizzare la sua utopia reazionaria (una società perfetta, identitaria in cui ogni elemento estraneo doveva essere espulso e, dove questo non fosse stato possibile, eliminato) con gli strumenti messi a disposizione della modernità: la macchina nella sua declinazione “umana” (burocrazia) e industriale.
Patterson ha esagerato enormemente l’importanza del secondo fattore (la divisione industriale del lavoro come invenzione dei macelli) dimenticando che è stato il primo a rendere socialmente possibile la Shoah. Auschwitz è essenzialmente figlio della mentalità burocratica perché “le regole della razionalità strumentale sono singolarmente incapaci di impedire fenomeni del genere” (p. 37). Cosa significa questo? Significa che quando l’agire sociale, emancipandosi dagli antichi “valori” e dalle norme di condotta tradizionali, si trasforma in pura razionalità strumentale, non esiste nulla che possa fermare i progetti moderni di “ingegneria sociale”, poiché ogni comportamento che si frappone alla realizzazione dello scopo prefissato diventa automaticamente “irrazionale”.
La cultura burocratica dalla quale siamo spinti a considerare la società come oggetto di amministrazione, come complesso di molteplici ‘problemi’ da risolvere, come ‘natura’ da ‘controllare’, ‘dominare’, ‘migliorare’ o ‘rimodellare’, come materiale su cui esercitare l’’ingegneria sociale’ […ha] creato l’atmosfera appropriata perché l’idea dell’Olocausto poté essere concepita, lentamente ma coerentemente sviluppata e portata a compimento (p. 37).
Laddove un progetto sociale è declinato in termini tecnico-burocratici non esiste più alcun criterio morale che possa intaccarne la logica e il funzionamento: quest’ultimo diventa un fine in sé e gli unici “valori” ammessi diventano quelli “tecnici” della lealtà, del dovere e della disciplina nei confronti dei superiori o, comunque, degli scopi dell’organizzazione di cui si fa parte. È stato questo che ha reso possibile quella “banalità del male” denunciata da Hannah Arendt nel caso dei funzionari nazisti bravi “padri di famiglia” che al tempo stesso spedivano ebrei nei forni crematori.
La razionalità come istanza di autoconservazione…e di autodistruzione
Ma la razionalità strumentale ha avuto un secondo, perverso ruolo nello sterminio degli ebrei. Come Bauman ricorda, infatti, il genocidio perpetrato nei confronti degli ebrei fu molto diverso da altre forme di omicidio di massa, inclusi quelli messi in atto dai nazisti stessi (ad esempio nei confronti delle popolazioni dell’Est Europa). Mentre il tentativo di sottomettere una popolazione attraverso la violenza, infatti, si preoccupa in primo luogo di falcidiare l’elite politica, religiosa e intellettuale, nei confronti degli ebrei i nazisti furono sempre attenti a preservare (o a creare ex novo) una struttura sociale gerarchica che potesse “dialogare” con l’amministrazione tedesca (p. 172). In questo modo, i nazisti fecero funzionare, in modo spesso (ma non sempre) inconsapevole, tale struttura in sinergia con le proprie istituzioni. Erano i Consigli ebraici ad amministrare non solo i ghetti ma anche la raccolta di denaro, di materiale e addirittura di persone destinate ai campi di lavoro e di sterminio. Ciò poté accadere perché, secondo un calcolo facilmente prevedibile, i Consigli ebraici non potevano che scegliere e propagare nella comunità ebraica il principio dell’autoconservazione come unica norma di condotta vincolante. Essi stessi funzionavano cioè in accordo con le leggi della razionalità strumentale, calcolando costi e benefici di ogni azione:
Gli ebrei erano una componente dell’assetto sociale destinato a distruggerli […] Incorporata nella struttura complessiva del potere, incaricata di un’ampia gamma di compiti e di funzioni all’interno di tale struttura, la popolazione condannata aveva apparentemente un ampio spettro di opzioni tra cui scegliere […]. Guidati nella propria azione da un intento di sopravvivenza razionalmente interpretato gli ebrei fecero dunque i gioco dei propri oppressori e facilitarono il loro compito, avvicinarono la propria fine. (p. 173)
Quando sul piatto della bilancia c’è la propria sopravvivenza, ogni atto può essere giustificato razionalmente. E così, cominciando dalle piccole “richieste” e vessazioni iniziali e incrementando progressivamente la forza di pressione sulla comunità ebraica, i nazisti poterono forzare il comportamento degli ebrei costringendoli dentro binari prevedibili: poiché il prezzo da pagare, per quanto alto, era sempre bilanciato con la salvezza della vita (per i superstiti), fu possibile fino all’ultimo calcolare il comportamento degli ebrei e inserirlo nel programma generale dell’organizzazione nazista.
La razionalità, adottata come norma di comportamento, agiva contro se stessa. Inoltre, essa portava alla degradazione morale della comunità ebraica stessa (p. 198) poiché incoraggiava l’assunzione generale del motto mors tua vita mea. Questo è un aspetto solitamente sottovalutato dei crimini nazisti (per tacere degli adepti del Paragone): prima ancora della morte e della sofferenza fisica, atroce fu l’abiezione cui i nazisti costrinsero la popolazione ebraica, facendo in questo modo combaciare l’immagine stereotipata dell’ “ebreo egoista” con la crudele realtà dei ghetti e dei campi di lavoro. Si trattò, come osserva giustamente Bauman, di una sorta di “profezia che si auto-avvera”. Fu così che i nazisti identificarono e poi addirittura realizzarono fisicamente l’idea dell’unwertes Leben, della vita indegna di essere vissuta (p. 102). Questa vita era considerata subumana ed essa poté essere spazzata via solo dopo aver subito processi simbolici e materiali di degradazione e “disumanizzazione” (pp. 41, 48, 147, 230).
La rimozione dell’animale in Bauman
Ed eccoci giunti al punto in cui l’analisi di Bauman, così precisa e dettagliata, non riesce ad identificare l’elemento di continuità tra l’oppressione umana e quella animale. Quando infatti parla di disumanizzazione, Bauman non si rende conto che solo la previa squalificazione della vita non-umana può permettere all’umano di essere trattato «come un animale» o degradato a «bestia». La visione di Bauman, da questo punto di vista, è tradizionalmente antropocentrica:
Solo gli esseri umani possono essere oggetto di giudizi a carattere etico. (È vero che le valutazioni morali si estendono a loro volta ad altri esseri viventi non umani, ma ciò avviene solo ampliando un originario punto di partenza antropomorfico) (p. 149)
Quando infatti Bauman osserva, sulla scia di Lévinas, che la possibilità che la Shoah si ripeta può essere evitata solo tornando alle radici del rapporto etico intersoggettivo (e dunque non obbedendo alle regole sociali ma al vincolo immediato che mi lega responsabilmente all’Altro) perché solo una relazione morale può interrompere la logica omicida e suicida della razionalità strumentale, sta ovviamente descrivendo un legame tra umani. Non sembra esistere per lui la possibilità che tale legame possa essere originariamente anche un legame extra-umano, tra noi e la natura non-umana. Eppure cita più volte l’osservazione di Hannah Arendt secondo cui i carnefici nazisti dovettero «soffocare … la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri» (p. 39, corsivo mio).
La possibilità di mettere a tacere quella solidarietà “istintiva” con la creatura che soffre aveva ricevuto un forte sostegno nei decenni precedenti in Germania (e non solo) da una visione scientifica che operava una doppia riduzione: riduceva la cultura ad un fenomeno “naturale” e riduceva a sua volta la natura ad un cieco “meccanismo”. Fu in questa temperie culturale che “si riconobbe così che le leggi naturali scoperte per le piante e gli animali dovevano essere valide anche per l’uomo” (p. 106). Bauman commenta adeguatamente questa sovrapposizione:
La scienza non doveva essere sviluppata in modo fine a se stesso: essa era considerata, innanzi tutto e principalmente, come uno strumento di terrificante potere che consentiva ai suoi detrattori di migliorare la realtà, di rimodellarla secondo i piani e i progetti umani e di assecondarla nel suo cammino verso l’autoperfezionamento. […] L’esistenza e la convivenza umana divennero oggetto di pianificazione e di amministrazione: come la vegetazione dei giardini o gli organismi viventi, esse non potevano essere lasciate alle proprie tendenze spontanee, e meno che mai si poteva consentire che fossero minacciate da erbe infestanti o sopraffatte da tessuti cancerosi (ibid.).
Nel denunciare questa analogia, tuttavia, Bauman è lontano dal denunciare l’atto di dominio e controllo esercitato sulla natura stessa come elemento che condanna la razionalità ad esercitarsi solo in direzione del dominio. Eppure ricorda più volte come una delle metafore sociali preferite da scienziati, funzionari e gerarchi nazisti fosse (accanto a quella della disinfestazione) quella dell’allevamento:
Ogni contadino sa che, se uccidesse i migliori esemplari dei propri animali domestici senza lasciarli procreare e continuasse invece a far riprodurre gli esemplari più scadenti, le sue razze da allevamento andrebbero incontro a una irrimediabile degenerazione. Questo errore, che nessun contadino commetterebbe con i propri animali e le proprie coltivazioni, viene da noi consentito su larga scala in seno alla società. (pp. 107-108; cfr. anche pp. 161-162)
In tal senso, osserva Bauman, «la tradizione degli allevatori di bestiame e di altri manipolatori della biologia fu utilizzata dai nazionalsocialisti non soltanto nella soluzione della ‘questione ebraica’. Essa offrì ispirazione anche alla politica sociale nazista nel suo complesso» (p. 122n). Non si tratta, tuttavia, di una semplice fissazione dei nazisti, bensì di un processo oggettivamente – benché non “necessariamente” – iscritto nei presupposti della civiltà.
Bauman giunge spesso ad intuire come l’ipostatizzazione della ragione strumentale sia l’elemento centrale di questo processo: egli comprende cioè il fatto che gli individui siano socialmente espropriati della ragione e contemplino i processi di razionalizzazione come un potere a essi estraneo che li domina. Eppure non vede in questo, come fecero Adorno e Horkheimer, una conseguenza dell’aver isolato la ragione dalla natura, reciso il nesso tra umano e non-umano, abbandonato la mimesi col vivente per assumere il gelido principio della ragione calcolante (ciò che implicava, come correttamente diagnosticarono i francofortesi, non un rifiuto della mimesi, bensì una «mimesi del morto», poiché la voce della natura che viene repressa dalla civiltà non viene affatto cancellata, bensì solo rimossa). Scrive infatti Bauman:
Attraverso le lenti del potere moderno il “genere umano” appare così onnipotente e i suoi singoli membri così “incompleti”, inetti e remissivi, e così bisognosi di perfezionamento, che trattare le persone come piante da potare (se necessario, da sradicare) o come bestiame da allevare non sembra bizzarro o moralmente odioso (p. 161).
Tuttavia, la mancata denuncia di questo potere sorprende e sorprende tanto più in quanto Bauman arriva in alcuni passaggi a descrivere in modo esatto il rapporto tra civiltà e natura:
La cultura moderna […] definisce se stessa e la natura, nonché la distinzione tra le due cose, attraverso la propria radicata diffidenza verso la spontaneità e la propria aspirazione a un ordine migliore, necessariamente artificiale. […] L’ordine, concepito innanzitutto come progetto, determina poi quali debbano essere gli strumenti, quali le materie prime, che cosa è inutile, che cosa è irrilevante, che cosa è dannoso, quali sono le erbe infestanti o i parassiti. Esso classifica tutti gli elementi dell’universo in rapporto a se stesso. Questo rapporto è l’unico significato che esso concede loro e che tollera (p. 135)
La civiltà opera così in modo non solo da distinguere la natura come oggetto del proprio dominio ma anche di giustificare questo stesso dominio come giusto e inevitabile:
La civiltà occidentale ha articolato la propria lotta per il dominio come guerra santa dell’umanità contro la barbarie, della ragione contro l’ignoranza, dell’obiettività contro il pregiudizio, del progresso contro la degenerazione, della verità contro la superstizione, della scienza contro la magia e della razionalità contro le passioni. Ha interpretato la storia della propria ascesa come graduale ma costante sostituzione del domino dell’uomo sulla natura al dominio della natura sull’uomo (p. 140).
È chiaro che solo ponendo nel giusto rapporto il millenario dominio sulla natura con i processi specifici della modernità (razionalizzazione, burocratizzazione, ecc.) è possibile giungere a comprendere come la condizione degli ebrei sia potuta passare dalla persecuzione antisemita al progetto totalitario di sterminio. Questo processo, che pure si incrocia con quello dell’oppressione degli animali, ha le sue specificità che non permettono affatto di comprenderlo come “variante” logica o “conseguenza” storica del mattatoio industriale, come pretende Patterson. In secondo luogo, il mattatoio stesso andrebbe collocato dentro la storia della civiltà come fenomeno estremo di sfruttamento della vita animale e necessiterebbe, non di paragoni provocatori, bensì di un’analisi simbolica e materiale che sia almeno altrettanto approfondita di quella che Bauman dedica al fenomeno della Shoah. Sempre che si voglia davvero comprendere l’orrore invece che lasciarsene attraversare.
Se questo è un “meglio”
È chiaro che il grande problema di Patterson e di tutti coloro che diffondono il Paragone è che agiscono motivati da buone intenzioni e da cattive abitudini. Ciò che anima la stragrande maggioranza del movimento “animalista”, infatti, non è il desiderio di elaborare una teoria adeguata dello sfruttamento animale ma sottrarre gli animali alla morte. Lo strumento che finora il movimento ha scelto di mettere in pratica è stata la diffusione del veg*ismo: ed ecco che si cerca in ogni modo di trovare un argomento strumentale per difendere il proprio veg*ismo e attaccare il carnivorismo. Con questo si compie un duplice errore: si strumentalizza l’Olocausto a fini di propaganda (e sia pure una propaganda “a fin di bene” come quella che vuole sottrarre gli animali alla morte feroce nell’industria alimentare) e, quel che è peggio, ci si impedisce di analizzare in modo concreto i nessi storici tra sfruttamento umano e animale. Quest’ultimo sarebbe forse l’unico modo per inventare una prassi adeguata al compito di liberazione delle creature senzienti dall’oppressione e dal dolore. Ma è una via lunga e difficile che, soprattutto, implica un interesse reale per la fine dell’oppressione umana: sia perché se non si comprendono le cause dell’oppressione umana risulta difficile comprendere quelle dell’oppressione animale (a meno di non voler ridurre tutta la storia umana a semplice epifenomeno di un generico e astratto “egoismo”), sia perché risulta difficile immaginare una società che ponga fine allo sfruttamento del non-umano senza contestualmente porre fine allo sfruttamento sull’uomo[4].
Purtroppo, è duro doverlo ammettere, gran parte del movimento animalista è caratterizzato da una carica di misantropia che rende l’esplicitazione di questi nessi di potere molto difficili, se non impossibili. Tale misantropia può forse essere comprensibile alla luce del destino che la nostra società riserva agli animali, ma non è teoreticamente giustificabile e va abbandonata: sempre che si voglia difendere l’antispecismo, ovvero un rifiuto generalizzato della violenza e del dominio che implica, logicamente, il rifiuto della violenza e del dominio intra-umani. Il Paragone tra Auschwitz e i macelli, già solo per il modo brutale in cui viene solitamente proposto, si vena di tale misantropia. Ma se quel paragone non riempie il suo occhio atterrito di lacrime, vere, per le vittime umane che “usa” per denunciare le vittime animali, allora uccide quelle vittime una seconda volta. Quando un animalista sostiene, provocatoriamente, che la Shoah è «una bazzecola rispetto alla questione degli animali» si perpetua questa misantropia animalista. E io temo che, per quanto brutale, questa affermazione sia molto più vicina al pensiero di chi usa il Paragone di quanto si sia disposti ad ammettere.
Certo, non è chiaro perché lo sterminio degli animali dovrebbe essere “peggio” di Auschwitz. Forse perché ciò che fanno gli umani agli animali è sempre peggio di ciò che gli umani si fanno a vicenda? Difficile sostenerlo (ma c’è chi sarebbe in grado di farlo: confondendo vittime e carnefici, tutti gli umani sarebbero, in quanto aguzzini degli animali, aguzzini senza distinzione). Molto più probabilmente qui si riduce l’orrore ad una misura quantitativa: uccidere x esseri senzienti è peggio che uccidere x–n esseri senzienti. E visto che da un lato ci sono milioni di ebrei gasati e, dall’altro, miliardi di animali torturati e seviziati, allora… Ma, come abbiamo visto, l’uccisione fisica è stato solo uno degli elementi che ha determinato la singolarità aberrante della Shoah. Ci sono orrori che sono qualitativamente diversi, mostruosità etiche di fronte a cui la semplice tentazione di fare confronti è indice di insensibilità. Si pensi a ciò che Harlow ha perpetrato psicologicamente e fisicamente alle scimmie (madri e figli) dei suoi esperimenti. Dire che la sofferenza provocata ad alcune scimmie è “meglio” (perché laddove c’è un “peggio” deve esserci, a rigore, un “meglio”) di quanto accade nei macelli industriali alle mucche dovrebbe far accapponare la pelle perfino di un animalista misantropo. Dunque, lo stesso si dovrebbe ammettere anche nel caso di Auschwitz. Il numero fa orrore, certo, ma il brivido del raccapriccio morale non ha bisogno della contabilità della ragione per emettere il proprio verdetto. Anzi, dovrebbe forse imparare a farne a meno ed allenare lo strumento delicato del sentire. Uno strumento che, proprio per la sua delicatezza, deve essere maneggiato con cura: dobbiamo imparare ad usarlo per vedere meglio, non per farci accecare dal dolore.
E così, la volontà di provocare, ammesso e non concesso che sia un’arma adeguata in una battaglia culturale e militante, andrebbe in questi casi lasciata a chi difende la barbarie.
[1] D’altronde, lo stesso Patterson descrive la storia del dominio sulla natura da parte dell’uomo in modo notevolmente impreciso: è vero che pone il discrimine storico essenziale tra le società di caccia e raccolta e le società neolitiche ma poi sembra suggerire che l’uomo sia stato costretto “psicologicamente”, da una specie di meccanismo di difesa, a dimenticare la propria “affinità” con gli altri animali che ancora “sentiva” durante il paleolitico. Tale processo non è affatto psicologico ma sociologico e dunque è necessario parlare non dell’uomo in generale, ma degli umani nei loro rapporti sociali. Infatti, l’umanità è considerata da Patterson un tutto omogeneo che si distingue al suo interno solo dopo che gli animali sono resi schiavi. Al contrario, i processi di stratificazione sociale sono parte essenziale e non derivata dei meccanismi di espansione predatoria della società umana nel suo complesso. Sulla distinzione tra una visione “metafisica” ed una “storica” dello specismo cfr. M. Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Novalogos, Aprilia 2011.
[2] Questo discorso si pone in continuità con quello tentato da Antonio Volpe nel suo bel saggio “Il sacrificio inarrestabile”, cfr. infra. Il fatto che Volpe difenda il Paragone non deve trarre in inganno. Il suo è un discorso pienamente politico o iper-politico che non ha nulla a che fare con l’uso che Patterson e la vulgata internettiana fanno del Paragone stesso. Volpe disegna infatti un articolato scenario ontologico in cui riesce a collocare i due fenomeni senza appiattirli, né istituisce meccaniche derivazioni storiche dell’uno dall’altro.
[3] È incredibile come Bauman riesca a tacere l’evidente affinità tra le sue tesi e quelle di Adorno e Horkheimer. Ancor più sconvolgente il fatto che non solo egli taccia questa affinità ma addirittura citi Adorno solo per attribuirgli un’interpretazione limitata (cioè “psicologistica”) del nazismo desumendola dal lavoro collettivo La personalità autoritaria. Cfr. Bauman (2010, 213-214). Sul contributo di Adorno ad una corretta interpretazione del rapporto tra specismo e antisemitismo cfr. infra il saggio di Serena Contardi.
[4] Su questo cfr. M. Maurizi, Al di là della natura, cit.